Il fatto che la
scienza esista e continui a esistere è sorprendente, anche (se non
soprattutto) perché la diamo per scontata. La maggioranza degli
intellettuali e dei politici italiani ritiene, in realtà, che ce ne sia
troppa. Qualcuno teorizza che se ne potrebbe fare anche a meno e
vorrebbe scuole che insegnino pseudoscienze e superstizione. A chi
pensa che gli scienziati e le conoscenze scientifiche siano tutto
sommato qualcosa di superfluo, se non pericoloso, si potrebbe
consigliare di riflettere sulla Cina, che di questi tempi viene spesso
presa come modello. Uno dei punti di forza ideologici del «Grande Balzo
in Avanti» di Mao, fu di spedire scienziati, tecnici e intellettuali a
fare i contadini, e di insegnare le teorie scientifiche
"socialiste".
La conseguenza fu una delle più gravi carestie del secolo e un
impoverimento senza precedenti. La cosiddetta «Quarta Modernizzazione»,
varata nel 1978 da Deng Xiaoping fondava il futuro sviluppo del Paese
sulla "scienza e la tecnologia", e una elevatissima proporzione dei
quadri dirigenti del Partito Comunista Cinese e degli uomini di governo
degli ultimi vent'anni ha un'istruzione tecnico-scientifica. Basta poi
sommare gli investimenti in ricerca e innovazione che i governi cinesi,
rispetto a quelli occidentali, hanno effettuato dal 1986, dopo l'avvio
del National High-Tech Research and Development Program, e si capisce
come mai oggi tengono in pugno l'economia mondiale. Ma, in fondo, hanno
solo ripetuto quello che già gli Stati Uniti avevano fatto all'indomani
della seconda guerra mondiale, mettendo in pratica i consigli di
Vannevar Bush al presidente Truman!
Il fatto che le straordinarie potenzialità della scienza non vengano
colte, non è frutto di cattiva fede. Sarebbe normale se il ripetersi
della storia non l'avesse reso oggi un segno d'ottusità. Dipende in
primo luogo dalla natura stessa di questo tipo di impresa conoscitiva.
Solo le gratificazioni intellettuali e i benefici economici e civili
che derivano dalla scienza possono, infatti, spiegare il persistere di
una forma di conoscenza di fatto estranea al modo spontaneo o intuitivo
di funzionare della nostra mente. Si discute dal Rinascimento quali
sono i rapporti tra scienza e senso comune. Il grande embriologo Lewis
Wolpert ha definito la scienza «innaturale» e la maggior parte dei
fisici parlano di «senso non comune». In realtà, rimane il prodotto di
specifiche caratteristiche evolute del nostro cervello. Quindi è
qualcosa di naturale. Ma è fuori discussione che si tratti di un modo
di pensare che richiede di andare contro le euristiche spontanee. E
che, soprattutto, implichi la disponibilità – difficile da conquistare
psicologicamente – ad abbandonare ciò in cui si crede, se i fatti
dicono il contrario. Quindi, ha ragione Roberto Casati, quando nel suo
Istruzioni per non essere fanatici (Il Sole 24 Ore di Domenica 7
agosto) attribuisce al metodo scientifico e all'uso del pensiero
controintuitivo effetti protettivi contro il fanatismo.
Se negli ultimi due secoli, e in modo sempre più accelerato negli
ultimi cinquant'anni, il benessere e la libertà nel mondo sono
aumentati, nonostante tutto, un ruolo importante l'ha svolto la scienza
e la sua diffusione culturale. Attraverso l'istruzione, più che per via
della divulgazione. Non riesco a vedere quale altra novità, dopo la
Rivoluzione Neolitica, possa spiegare come mai, dopo diecimila anni di
tentativi falliti, a un certo punto si è riusciti a far convivere
civilmente e far crescere in benessere e libertà, in modo abbastanza
stabile, società umane a priori del tutto improbabili.
La scienza, quindi, richiede menti speciali. Che non vuol dire
umanamente superiori. Solo capaci di funzionare in modo un po' diverso
dall'ordinario. E richiede che le idee scoperte da queste menti, e il
metodo usato, si diffonda nella società. Perché in questo modo si
neutralizzano anche gli impedimenti stessi alla scienza, che sono poi
disvalori che rendono spesso tragica la convivenza civile:
totalitarismo, razzismo, superstizione, eccetera.
Le beautiful minds sono quelle che, per motivi che possono essere i più
diversi, hanno saputo guardare le cose in modo nuovo, costruendo
ipotesi in prima istanza estranee all'esperienza – e per questo così
spesso combattute nel nome delle percezioni immediate – che, messe a
confronto con i fatti raccolti o provocati, hanno consentito di capire
che cosa c'è al di là dell'esperienza diretta, che per milioni di anni
era bastata ai nostri antenati per la mera sopravvivenza. Del resto,
cosa hanno in comune i postulati di Euclide, la statica di Archimede,
il concetto ippocratico della malattia, il principio d'inerzia o la
prima legge del moto, il calcolo infinitesimale, la teoria cinetica del
calore, la teoria della selezione naturale, la tavola periodica, la
relatività speciale, la teoria microbica delle malattie e il codice
genetico? Partono da ragionamenti che vanno contro l'esperienza comune
e, usando diversi accorgimenti operativi, arrivano a scoprire le leggi
che governano il mondo naturale, o realtà che non sono accessibili ai
nostri sensi. Ma le cui caratteristiche spiegano molte più cose delle
nostre intuizioni.
Le menti scientifiche sono esempi formidabili delle potenzialità
manipolatorie del cervello umano: che si tratti di Talete, Euclide,
Archimede, Ippocrate o Erasistrato, fino alle più sofisticate ricerche
sulla natura delle forze fondamentali o sull'organizzazione fisica e
biochimica delle cellule, passando per Copernico, Galileo, Newton,
Riemann, Einstein, Planck, Darwin, Pasteur, Claude Bernard o la coppia
Watson/Crick.
(da http://www.ilsole24ore.com)
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