Lettere in redazione
Ogni giorno noi docenti fatichiamo nelle classi per aiutare i nostri
studenti a superare le piccole e grandi difficoltà che la vita presenta
loro, convinti che insegnare non significhi solo trasmettere
conoscenze, ma guidare gli alunni attraverso quel percorso che li
porterà a realizzare pienamente se stessi. Tra i valori che
trasmettiamo, si collocano al primo posto la lealtà e il rispetto, ma
inizia a insinuarsi un dubbio in noi: il rispetto rappresenta ancora un
valore?
La domanda nasce da una semplice constatazione: noi docenti ci siamo
iscritti ad una graduatoria “ad esaurimento”, disciplinata da una legge
dello Stato, la Legge 296/2006, nota anche come Legge Fioroni. In base
a tale legge abbiamo preso delle decisioni, che non investivano solo la
sfera professionale, ma anche la dimensione personale, familiare, che,
immaginavamo, tale legge avrebbe garantito e tutelato assieme alla
nostra scelta professionale. Ora, a soli 5 anni di distanza, vediamo le
vite nostre e delle nostre famiglie appese a un filo: la certezza
occupazionale che avevamo, e che era garantita dalla legge che abbiamo
rispettato, è stata intaccata da provvedimenti e ricorsi di colleghi
che, spinti da esigenze personali, hanno aspirato a sovvertire il
contenuto e la ragione d’essere della legge medesima fin tanto da
riuscire nel loro intento ottenendo la possibilità di trasferirsi. Da
molte parti sentiamo dire che il diritto alla mobilità territoriale è
sacrosanto e che è un diritto, per i docenti che hanno maturato
competenze date da studio e servizio, ottenere il lavoro a tempo
indeterminato a cui ambiscono. Si dice che questo sistema si chiama
“meritocrazia”. Non voglio entrare in facili quanto sterili polemiche
circa l’ottenimento del punteggio, voglio spostare l’attenzione su un
altro aspetto: il diritto di un docente a trasferirsi vale più del
diritto di un collega a lavorare dove è nato o dove ha a suo tempo
deciso di andare a lavorare? In Italia sembra di sì, sembra che ci sia
qualcuno che è più “uguale” di altri, sebbene questi “altri” siano
proprio coloro che hanno agito nel rispetto della legge. L’origine
della problematica mette radici in un ambiente che non è di diretta
competenza degli insegnanti: la politica dei tagli esula infatti
dall’ambito d’interevento del docente, che si trova ad esserne
semplicemente vittima, al sud, quanto al centro e al nord. La soluzione
alle problematiche occupazionali è stata vista, da alcuni colleghi,
nella pratica del ricorso, finalizzato a garantire a se stessi la
possibilità di spostarsi laddove le graduatorie sembravano più
abbordabili rispetto al punteggio posseduto. Mai nessuno di questi
docenti ha pensato che il suo gesto sarebbe andato a ledere le
aspettative, i progetti, le vite dei colleghi? A nessuno è venuto in
mente che quei nomi sulle graduatorie corrispondono a persone, che
magari hanno famiglia, bambini piccoli, affitti o mutui da pagare? No:
i colleghi sono stati considerati alla stregua di nullità da calpestare
senza remore. Ebbene, è giunto il tempo che le “nullità” facciano
sentire la propria voce, difendano a chiare lettere i loro diritti, che
sono appunto diritti stabiliti dalla legge (L. 296) e non privilegi. A
tutela di queste persone è stata proposta, dal sen. Pittoni,
l’assegnazione di un bonus punti, attribuibile a tutti coloro che da
anni lavorano nel medesimo contesto territoriale, dove, magari non vi
sono semplicemente nati, ma hanno deciso, con sacrificio, di andarvi a
risiedere. Il bonus punti è una sorta di “vaccinazione”, che renderebbe
i docenti meno vulnerabili rispetto agli effetti nefasti dei
trasferimenti. Nessuno può obiettare che il bonus punti sia immorale,
dato che ha la finalità di impedire che persone oneste e rispettose
delle leggi diventino vittime di situazioni problematiche che non hanno
causato né direttamente né indirettamente. Nessuno può nemmeno
obiettare che il bonus sia incostituzionale, dal momento che non
verrebbe riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro i quali
riconfermeranno la propria scelta professionale. A chi obietta dicendo
che sarebbe da attribuire un bonus a chi decide si trasferirsi perché
dovrebbe sacrificare gli affetti e sobbarcarsi l’onere economico
dell’affitto, rispondo che i sacrifici, economici o personali, li
facciamo tutti, a sud come al centro-nord, indistintamente.
A conclusione della riflessione sorge però spontanea una domanda: a
cosa serve il rispetto? In Italia assistiamo troppo di frequente a
situazioni in cui chi non rispetta la legge viene, prima o poi,
“condonato”. Chi esporta all’estero i capitali, può usufruire di un
condono, chi costruisce abusivamente, può beneficiare di condoni, chi
non vuole rispettare la legge che disciplina le graduatorie può sperare
in una sorta di “condono” perseguito con la strategia dei ricorsi. Del
resto l’Italia è la patria del motto “fatta la legge, trovato
l’inganno”… Vogliamo questo per il nostro Paese? Vogliamo che continui
a essere la patria di coloro che, al posto di rispettare le regole,
preferiscono che vengano riscritte? Ma che tipo di insegnamento può
dare tutto ciò? I nostri studenti sempre più spesso credono che per
diventare “qualcuno” basti essere abili nel calciare un pallone o
possedere un bel fisico; concetti quali studio, sacrificio, dedizione,
passione, sono assenti dal loro vocabolario. Ora per di più vedranno i
loro insegnanti rischiare di perdere il posto a favore di chi al posto
del rispetto delle regole ha preferito il loro sovvertimento. Cosa
dedurranno da ciò? Semplice: che per ottenere ciò che si vuole non
servono il rispetto verso la legge e la lealtà verso gli altri, ma che
tutto è lecito, anche calpestare i diritti e le vite altrui. Cogliamo
dunque oggi, festa della nostra Repubblica “fondata sul lavoro”
l’occasione per dare un messaggio diverso ai nostri giovani.
agiammusso207@gmail.com