L'Assemblea
regionale ha approvato la legge che istituisce il "siciliano" tra le
materie da studiare. Il testo è stato presentato dal deputato del
Movimento per l'autonomia Nicola D'Agostino.
Sorge spontanea la domanda: ma c’era bisogno a scuola dello
studio di un altro “volgar’eloquio”? Non ne bastava uno?
I nostri ragazzi fanno già fatica a leggere e capire un testo semplice
scritto in madre lingua (quella del “ sì “di Dante) ; parlano e
scrivono un italiano sciatto povero e stentato e, talora, al limite
della comprensibilità, e vogliamo caricarli per questo, in aggiunta di
tutte le altre materie, dello studio obbligatorio di due ore la
settimana di un idioletto (dialetto) che, fra l’altro, non
parlano più nemmeno i loro padri?
E a che scopo, poi? Giova, forse, oggi, a qualcuno in società
comunicare e scrivere in dialetto siciliano (quale?) per farsi
comprendere, per perorare una causa, per fare una domanda di lavoro,
per comprare un biglietto alla stazione, per chiedere
informazioni negli uffici, o per quant’altro? Abbiamo fatto tanta
fatica per arrivare alla lingua unitaria, siamo stati tanto solerti a
sradicare nei nostri figli la cultura dialettale, considerandola una
subcultura di cui vergognarsi, -quand’essa, invece, aveva ancora un
senso per poterla amare difendere e custodire, ( sia pure nel segreto
del nostro cuore, nel silenzio rispettoso della nostra
archeologia, e della nostra memoria, pudicamente, senza far rumore), -
e ora , in una società tecnologica avanzatissima e globalizzata,, ci
volgiamo indietro,-falsi nostalgici- vogliosi di recuperare, per
forza di legge, una realtà antropologica che sappiamo –di
fatto- non esistere più? Fieri di recuperare quale
identità? E con quale dialetto?
Come ” le lucciole” di pasoliniana memoria, anche i dialetti sono
scomparsi da tempo dai marciapiedi, dai mercati, dai vicoli e dai
sobborghi delle nostre città, impietosamente travolti e cacciati via
dai luoghi naturali della loro origine, per l’avanzare delle
“magnifiche sorti e progressive”; inghiottiti, come le periferie dal
centro, si sono imborghesiti anch’essi, al punto da ridursi
a intercalari oramai esibiti come per moda negli
ambienti chic e progressisti! Siamo convinti veramente che i ragazzi
abbiano tanta voglia di comunicare tra loro in dialetto? E se
fosse, chi potrebbe loro vietarlo? Che lo parlino, se ne hanno
voglia! Chissà, che non si trovi ancora qualche vegliardo in qualche
vicolo della “città vecchia”, disposto ad insegnare il suo gergo
privato, il suo idioletto a chi è ancora disposto ad ascoltarlo. Ma che
di ciò non si faccia carico la scuola: ahimé, essa ha, oggi, ben
altri problemi, seri, cui pensare!
Nuccio Palumbo
antoninopal@katamail.com