Un concorso con un
premio da 100mila euro per la scuola migliore. Sia chiaro, non denaro
per ristrutturare la palestra o comprare computer e lavagne
interattive, ma soldi destinati a entrare nelle buste paga degli
insegnanti. Trentamila euro praticamente subito, in base ai risultati
ottenuti dagli alunni alle prove Invalsi, quelle appena concluse
seppure tra boicottaggi e polemiche. (di Francesca Barbiero da
IlSole24Ore)
Gli altri 70mila tra tre anni, alla fine di un percorso di osservazione
direttamente nelle scuole - effettuato da ispettori esterni - e di
confronto tra i test 2011 e quelli 2013 per calcolare l'inafferrabile
delta, cioè per valutare non il merito(o il demerito) dell'alunno ma lo
sforzo, la caparbietà, l'impegno e le capacità dell'insegnante, anzi
della squadra degli insegnanti, che pur avendo magari studenti
difficili, stranieri o con difficoltà, avranno ottenuto i migliori
risultati.
Insomma, una strategia per superare le obiezioni di molti sul vulnus
intrinseco nell'agganciare un sistema di premi agli insegnanti ai
risultati nei test: l'impossibilità a misurare il valore aggiunto, cioè
il progresso registrato dagli studenti. E, per fare in modo che sia poi
il gruppo stesso a ridistribuirsi meriti o demeriti al proprio interno
e a gestire il premio. Eppure, molte scuole hanno giudicato la proposta
irricevibile e la sperimentazione del Progetto Valutazione Qualità
Scuole, partita ufficialmente con le prove Invalsi, avanza a fatica.
Andrea Gavosto, è il direttore della Fondazione Agnelli di Torino, cui
il ministero dell'Istruzione ha affidato il compito di seguire la
sperimentazione negli istituti scolastici e a descriverne gli effetti.
E racconta come nelle scuole, il no sia stato pregiudiziale. «Qualche
mese fa eravamo con la direzione del ministero a Pisa all'assemblea dei
docenti a spiegare il meccanismo - rievoca Gavosto – e abbiamo scoperto
che i collegi avevano già votato contro. Purtroppo nel mondo della
scuola è venuto meno il consenso. La
politica dei tagli ha eretto un muro che in alcune realtà territoriali
è invalicabile».
Così, la sperimentazione a Pisa è abortita prima di nascere. E, alla
fine, le province scelte per verificare se decolla finalmente in Italia
un sistema premiale per gli insegnanti sono state Siracusa, con 38
scuole, Pavia con 20, Arezzo con 14 e Mantova con cinque. Il periodo
scolastico preso in esame è quello delle scuole secondarie di primo
grado. «Questo per due motivi. Innanzitutto - prosegue Gavosto – perchè
sono le uniche per le quali oggi si dispone di un test d'ingresso,
quello della quinta primaria e finale, cioè l'esame di terza media. In
secondo luogo perchè le prove dell'Invalsi sono anonime e solo la
segreteria dell'istituto è in grado di attribuire il codice all'alunno.
Se lo studente cambia istituto, recuperare i risultati alle prove è
oggi impossibile».
In altre parole, mancando in Italia l'Anagrafe degli studenti, cioè un
una banca dati con la storia scolastica di ciascun alunno, premiare non
solo il risultato ma il gradiente di miglioramento è una strada in
salita nonostante sia uno strumento indispensabile soprattutto per
valutare fino a che punto la scuola stia lavorando bene nei casi più
difficili, con gli alunni stranieri e con quelli che presentano
disturbi dell'apprendimento. «Le obiezioni del Garante della privacy
rappresentano un ostacolo gigantesco – commenta Gavosto -. Ma crediamo
si debba andare avanti comunque, ed è quello che abbiamo detto nel
nostro Rapporto 2009 sulla scuola italiana. Noi siamo affezionati a
un'idea forte, che indipendentemente dalla provenienza geografica e
dell'estrazione sociale, ciascuno studente abbia diritto a migliorare
la qualità del suo livello di apprendimento. Con insegnanti che vengono
premiati se si adoperano in questa direzione».
Alla Fondazione Agnelli toccherà tirare le fila della sperimentazione
con un rapporto in cui verranno descritti i criteri di ripartizione del
premio nelle scuole ed esaminati le variazioni degli apprendimenti. «E
dovremo essere intellettualmente onesti - conclude Gavosto- . Magari
scopriremo che a dare soldi non è che le scuole migliorano».
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