Ritorna
d’attualità, prepotentemente, la mia cara collega con il “vizio” del
dialetto siciliano: “Ma cu capisci a
Montalbanu!?”. Con il suo idioma nisseno, anche per me, a
tratti, quasi incomprensibile. Ed ha ragione il nostro direttore, Pasquale Almirante, quando chiede
quale è il vero dialetto siciliano. E’, forse, quello di Palermo? Con
la sua cadenza strascicata e onomatopeica, “si ora ‘a pegghe ‘nta….”! O
quello siracusano, sempre pieno di sinuosi elzeviri e di ricordi greci,
“Ca ciavi ‘nto ciovu”! O quello messinese, denso di aringhe e di
còzzuli ‘i missina “annamu…annamu”! O quello catanese, pieno di
musicalità, di baldanza e di spavalderia vulcanica, “matruzza bedda”!
Che è, forse, in assoluto, la parlata più conosciuta “all’estero”,
ascoltata nelle sale cinematografiche, da “Paolo il Caldo” al “Mastro
don Gesualdo” di Turi Ferro e nel teatro di Nino Martoglio. E quale
abilitazione bisogna avere per insegnare il siciliano? Quali titoli
bisogna produrre? La laurea in Lingua e Letteratura italiana o in
Lingue straniere? La Sicilia non è un’isola, ma un continente, un
pianeta, una metafora, come diceva Sciascia.
Se la guardi da lontano con gli occhi distratti e indifferenti, ti
sembra deformata, pallida, incolore, piena di coppole storte e di
luoghi comuni, con un indistinto profumato di zagara e di piombo,
rigata, a tratti, da rivoli di fuoco e di sangue. Ma se ti avvicini con
attenzione e rispetto, noti cose incredibili e mai viste in nessuna
parte del mondo e la stessa isola non ti sembrerà una sola, sperduta,
isolata e afflitta nel deserto spumeggiante del mare nostrum, ma dieci,
cento, mille Sicilie, distese al sole ad asciugare e a meditare il
mondo. Scoprirai un universo madido di virtù e ingiustizie, una
ragnatela di storie e di civiltà antiche, di uomini e di donne in
eterna attesa di una insperata rinascita, di una liberazione che tarda
sempre ad arrivare. “Di uomini che si mordono dentro”.
“Ma i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che
credono di essere perfetti”, diceva il principe Fabrizio Salina a
Chavalley, nel romanzo “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, “…in
Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani
non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare.
Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di
magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e
perfezionate, nessuna germogliata a noi stessi, nessuna a cui abbiamo
dato il ‘la’”.
E non è un caso che la lingua siciliana non parla al futuro, cioè, non
coniuga i verbi al futuro, ma solo al presente e al passato, “andrò,
vivremo”, si traduce, “iemu, campamu”.
Non a caso, nella Seconda Guerra Mondiale, la liberazione dell’Europa
dal nazifascismo, nel luglio del ’43, è iniziata proprio dalla Sicilia,
il “ventre molle” dell’Italia. Non a caso, Federico II di Svevia, lo
“stupor mundi”, nonostante fosse stato nominato dal papa, Imperatore
del Sacro Romano Impero, non volle mai cedere il titolo di Re di
Sicilia. E tu, Mineo, non sarai l’ultima delle città sicule, da te,
infatti, nascerà Ducezio, condottiero e re dei Siculi. E nel corso
della sua millenaria storia, la Trinacria è stata greca, romana,
bizantina, araba, normanna, vichinga, sveva, angioina, spagnola e di
conseguenza, nel lessico, oltre al latino, si trovano tracce di greco,
arabo, francese, provenzano, catalano, italiano.
Adesso, la Sicilia è la porta dell’Europa per gli ultimi del mondo, per
i diseredati dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente, per tunisini,
marocchini, libici; per tutti quelli che sono in cerca di una nuova
vita e di un futuro possibile.
E allora, cari onorevoli e assessori regionali, quale storia della
Sicilia dobbiamo insegnare? Quale cultura dobbiamo trasmettere ai
nostri giovani? Dobbiamo ricordare la nostra gloriosa Magna Grecia e le
leggende di Aci e Galatea, l’isola dei Ciclopi e la fucina del dio
Vulcano? Dobbiamo rammentare le storie di Giufà e di Marrabbecca, di
Ruggero II, della regina Bianca e della baronessa di Carini? E,
soprattutto, quale idioma celebrare? Quello di Paternò o il
galloitalico di Nicosia, quello di Bronte o di Piana degli Albanesi?
Anche se, nonostante tutto, credo che valga la pena insegnare la
Sicilia e la lingua siciliana ai nostri figli. Con le parole del poeta Salvatore Quasimodo, premio Nobel
per la letteratura, che nutriva amore e nostalgia, sdegno e dolore per
la terra dei Padri.
E poter dire, ancora, ai nostri ragazzi,
“Oh, il Sud è
stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi
che hanno bevuto il sangue del suo cuore…
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.”
Una terra impareggiabile e irrecuperabile. Come la terra di Sicilia.
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it