L'introduzione
del cosiddetto "precariato" tra gli insegnanti del nostro paese ha
costituito storicamente la prima breccia nel sistema di garanzie che
regolava l'impiego pubblico. Se si guarda bene, scuola di qualità non
fa rima con precarietà
E' quasi un rituale dell'informazione italiana: numerosi scritti e
articoli, con l'andamento di un fiume carsico, inondano quotidiani e
riviste nei momenti più "caldi" dell'anno scolastico (apertura e
chiusura) per poi inabissare nel silenzio il problema della
degradazione delle condizioni di lavoro dentro un'istituzione
dall'importanza strategica essenziale come quella della scuola.
Raramente però in essi viene sottolineato come l'introduzione del
cosiddetto "precariato" tra gli insegnanti del nostro paese abbia
costituito storicamente la prima possente breccia nel sistema di
garanzie che regolava l'impiego pubblico. Come una sorta di cavallo di
Troia, tale fenomeno ha preannunciato la penetrazione e l'estensione
dell'assedio della ristrutturazione contrattuale nel fortilizio del
tanto deprecato (da chi può farne a meno) "posto fisso".
Analizzare dunque più da vicino questo processo consente una
valutazione su un lungo periodo degli esiti della "flessibilità" in un
ambito lavorativo statale e un giudizio sulle motivazioni e meccanismi
che ne hanno determinato la generalizzazione. In entrambi i casi tale
verifica porta ben lontano dal riscontrare quegli effetti virtuosi e
quei presunti benefici in termini di efficacia lavorativa e di ricaduta
occupazionale che ispirano e riempiono di entusiasmo i cantori delle
"magnifiche sorti e progressive" del neoliberismo.
Forme di contratto "atipico" hanno in realtà da sempre afflitto una
parte della forza-lavoro docente, almeno fin dai tempi della "Legge
Casati". Tale condizione tuttavia, all'inizio, era determinata dalla
difficoltà del neonato stato italiano a reperire insegnanti con una
qualifica sufficiente a divenire "titolari di cattedra". Le cose però
cambiano rapidamente. Già nel 1953 Salvemini denunciava la creazione
artificiale di una notevole quantità di supplentato a fini clientelari
tramite l'aggiramento di una normativa del 1906 che fissava nel
concorso l'unica modalità di assunzione: "Bandirono i concorsi per un
numero inferiore ai posti che sarebbero stati presumibilmente
disponibili e, quando non c'erano più vincitori di concorsi da mettere
a posto, nominavano in via di urgenza senza concorso dei supplenti, e
questi rimanevano tali per anni ed anni, finché non venissero 'immessi
nei ruoli' con qualche infornata-amstia [...]".
Il giochetto rivelato da Salvemini non rievoca un arcaico stratagemma
da "padroni del vapore" d'antan ma inaugura una pratica di sfruttamento
che, complicata da raffinate alchimie procedurali e amministrative,
vale ancor adesso, incredibilmente tollerata, senza quasi alcun
sussurro, dalla maggior parte dei sindacati. Già oggi, anche dopo le
ben note spietate mutilazioni di organico da parte del ministro
Gelmini, ci sarebbero ancora almeno 30.000 cattedre immediatamente
disponibili per assunzioni a tempo indeterminato. Ma il ministero,
invece di servirsene per una stabilizzazione almeno parziale degli
aspiranti al ruolo, le assegna tramite mortificanti e sovraffollate
"convocazioni" di docenti precari all'inizio di ogni anno scolastico.
Tali incarichi sono concessi mediante contratti che terminano il 31
agosto, e sono messi nuovamente in palio magari pochissimi giorni più
tardi per l'annualità successiva.
Esistono poi decine di migliaia di cattedre dette "di fatto" che non
sono disponibili per assunzioni "in ruolo" e che costituiscono l'enorme
maggioranza dei posti ricoperti (quando va loro bene) dai "paria"
dell'insegnamento precario. Questi contratti, invece di scadere il 31
agosto, come gli altri, pur essendo ad essi assolutamente equivalenti
per qualità e quantità della prestazione lavorativa richiesta,
terminano il 30 giugno. Ciò significa un vero e proprio esproprio di
stato a danni di lavoratori già penalizzati sotto mille altri aspetti,
dal profilo stipendiale, notevolmente al di sotto della media europea,
fino ai continui ed estenuanti cambi di sede.
Tali contingenti sono stabiliti sulla base delle sopravvenienti
esigenze delle singole scuole che eccedono le risorse di organico in
ruolo (ad esempio: un certo numero di bocciati, o un'imprevista
quantità di iscritti concorrono alla formazione di nuovi classi). L'uso
disinvolto dei criteri atti alla loro costituzione ha però determinato
un'espansione assolutamente sproporzionata di questa tipologia
contrattuale rispetto a quella delle cattedre "di diritto" (quelle cioè
"a tempo indeterminato"), a cui una certa parte della prima potrebbe
essere ridotta tramite appositi accorgimenti amministrativi.
Ma non è finita. Nel pozzo senza fondo della stratificazione
contrattuale della classe docente scolastica c'è un livello ancora più
infimo. Si tratta di veri e propri lumpenproletarier dell'insegnamento
che vivono nell'attesa di una convocazione telefonica da parte dei
dirigenti scolastici per supplenze di pochi giorni o di poche
settimane. Questi insegnanti subiscono infatti, al massimo grado,
l'alienazione conseguente ad un impegno lavorativo privato di qualsiasi
valore a causa di una discontinuità che lo rende effimero e avvilente,
sia agli occhi di chi lo pratica, sia a quelli di chi ne dovrebbe
essere il beneficiario, gli studenti. Anche in questo caso, sarebbe
possibile trovare soluzioni compatibili con un impiego stabile degli
insegnanti, ad esempio assumendo uno o più insegnanti che, in singoli
istituti o in reti di scuole, abbiano il compito di sostituire per
brevi e brevissimi periodi i colleghi assenti.
L'irrazionalità della scelta politico-sociale di costringere alla
"flessibilità" i lavoratori della scuola pubblica è quindi evidente: i
frequentissimi cambi di datore di lavoro (le scuole), la discontinuità
salariale forzosa, la disperante incertezza sul proprio futuro,
un'"autonomia" incapace di liberare energie e creatività didattiche ma
massimamente inventiva nell'escogitare complicanze burocratiche,
procedurali, valutative diverse quasi per ogni scuola, sono un assoluto
non-senso in un comparto in cui elemento decisivo per l'efficacia
dell'insegnamento è la continuità lavorativa. Nessuna modulazione
didattica territoriale né sinergie progettuali, né investimento, né
possibilità di auto-miglioramento personale da parte del singolo
docente sono possibili senza di essa. Se si guarda bene, scuola di
qualità non fa rima con precarietà.
(di Dario Portale da rebusmagazine.org e in
http://www.rassegna.it/)
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