Sia chiaro: studiare
serve e laurearsi serve ancora di più. Ieri abbiamo pubblicato i dati
del consorzio Almalaurea sul destino dei laureati italiani negli ultimi
cinque anni, e abbiamo sottolineato come la laurea, il famoso pezzo di
carta agognato dalle mamme e poi tenuto incorniciato nel tinello,
avesse perso gran parte del suo potere di attrazione. Nelle patrie
università, insomma, negli ultimi cinque anni si era assistito ad una
diminuzione sistematica delle immatricolazioni, superiore al 9%: 26
mila studenti in meno. Almalaurea ribadisce oggi che, comunque,
laurearsi è ancora oggi la via più certa per trovare un lavoro prima e
meglio. «Il calo delle immatricolazioni non deve
meravigliarci - dice Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea - in
quanto è il frutto di tre fattori concomitanti. Primo, negli ultimi 25
anni i diciannovenni sono diminuiti del 38%. C’è stato un oggettivo
calo demografico. Secondo, il tasso di passaggio tra scuola superiore e
università è crollato di 9 punti (dal 75 al 66 per cento) a motivo
della controversa immagine che l'università italiana ha dato di sé:
dalle parentopoli, agli sprechi, alla moltiplicazione dei corsi
inutili. Terzo, la laurea triennale (mantenere un figlio agli studi 3
anni invece di 5) ha aperto gli atenei a fasce di popolazione prima
escluse, ma poi queste stesse si sono trovate di fronte al problema dei
costi aumentati e non ce l’hanno fatta più».
Da qui il calo degli iscritti. Ma l’università paga. Tutti i dati
statistici confermano - infatti- la diretta proporzionalità tra laurea,
occupazione e reddito. Se prendiamo i diplomati e i laureati usciti dai
rispettivi corsi di studio nel 2004 e li andiamo a rivedere nel 2009 (a
cinque anni di distanza), scopriamo che esiste uno zoccolo duro di
persone non ancora occupate, pari al 14,8% dei diplomati e al 12,1% dei
laureati triennali. Ma mentre un lavoro continuativo (anche se non
fisso) ce l’ha il 37% dei diplomati, questo dato sale al 67% tra i
laureati. Un impiego a tempo indeterminato ce l’hanno il 18% dei
diplomati, ma ben il 37% dei laureati. Complessivamente, quindi, i
laureati lavorano molto di più e con maggiore stabilità rispetto a chi
ha studiato di meno, come conferma il tasso di occupazione complessivo
che, nel caso dei laureati, presenta un vantaggio di 11 punti sui
diplomati (66 contro 77 per cento).
Si ribatte che, però, i dottori guadagnano poco. «Se noi consideriamo
le retribuzioni sull’arco dell’intera vita lavorativa, un diplomato
oggi guadagna 100 quando un laureato arriva a 155: il divario è enorme
- spiega Cammelli - e l’abbaglio che molti prendono quando osservano
che un diplomato prende più di un laureato, dipende dal fatto che
osservano le retribuzioni iniziali, e quando il laureato si mette sul
mercato del lavoro il diplomato c’è già da almeno quattro anni. Sui
tempi medi e lunghi la differenza appare invece evidente e tutta a
vantaggio dei laureati».
Ciò detto non tutte le lauree sono uguali e altrettanto spendibili. Uno
studio di Confindustria ha rilevato il numero dei laureati di un anno
accademico e quello richiesto dal sistema delle imprese nello stesso
anno: alla luce di questi dati si nota come l’Italia abbia bisogno
ancora oggi di 20 mila ingeneri in più, 15 mila economisti e
statistici, 8 mila medici e sanitari. Per contro c’è un esubero annuo
di 4 mila psicologi, quasi 17 mila laureati in lettere o lingue, 4 mila
architetti, 3 mila geologi, eccetera. «Non c’è, dubbio - continua
Cammelli - che le lauree scientifiche, tecnologiche ed economiche danno
una possibilità di impiego più rapida delle altre. Tuttavia, valutati i
laureati a distanza di 5 anni, anche quelli delle lauree generaliste
hanno trovato un lavoro. Impiegando solo più tempo».(La Stampa di
Raffaello Masci)
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