Non ho letto il libro
di Paola Mastrocola. Ma, conoscendo il tenore delle argomentazioni
dell’autrice, temo che il numero delle copie vendute sia direttamente
proporzionale alla carenza di spessore scientifico e di aderenza alla
realtà delle cose. In sostanza, quel che il discorso dominante sulla
scuola ci propone oggi è che la scuola è in uno stato di profonda crisi
dovuto a ragioni di natura morale: accidia, pigrizia, inettitudine,
degli allievi per la Mastrocola, di noi insegnanti per i vari Brunetta
di turno. Nulla di nuovo sotto il sole. Ai primi del ‘900, Giovanni Gentile,
Gaetano Salvemini e un insospettabile giovanissimo Piero Gobetti,
dicevano in sostanza le stesse cose: la scuola è piena di
scansafatiche, di “spostati” come venivano chiamati allora, che vanno
ad ingrossare le fila dei medici, dei letterati, degli ingegneri
disoccupati.
L’operazione da compiere, secondo le élites dell’Italia
liberale, era una sola. Scremare, come fu poi effettivamente fatto con
la riforma Gentile del 1923, che abolì gli istituti tecnici, che davano
accesso all’istruzione superiore, per sostituirli con la scuola tecnica
“a vicolo cieco”, che fornisse un’infarinatura di sapere ai ceti
popolari ma moderasse allo stesso tempo le loro ambizioni di mobilità
sociale, facendoli restare al loro posto: nell’officina, nella bottega,
nei campi. Lo racconta il classico di Marzio
Barbagli, Disoccupazione intellettuale e mercato del lavoro in
Italia (1973).
Anche gli animi più nobili, quando universalizzano, scambiandolo per un
dono di natura, il loro privilegio di intellettuali, cadono nell’errore
di leggere i problemi dell’educazione secondo le categorie della
morale. E’ quel che Pierre Bourdieu chiama l’illusione scolastica: il
mondo letto dal punto di vista della professoressa di lettere, con gli
esseri umani che si dividono in “dotati” e “somari”. Il giudizio
scolastico, eretto a categoria dello spirito, diviene il criterio delle
diagnosi e delle soluzioni di una condizione di crisi. La crisi della
scuola, che ritengo personalmente un fatto impossibile da negare. Ma il
dato di fatto della crisi è una cosa, la sua diagnosi intelligente
tutt’altro.
I tanti che parlano della scarsa valorizzazione dei talenti, del
lassismo didattico, del ’68, quali cause della crisi dell’educazione e,
in genere, anche tutti coloro i quali, del tutto alieni da posizioni
gelminiane, vedono alla radice della crisi della scuola delle cause
“didattiche”, compiono una precisa scelta di metodo: isolano la
scuola dalla società in cui la scuola stessa è compresa. Parlano
della scuola come di un mondo a parte, o, come diceva Spinoza a
proposito della credenza che l’uomo agisse secondo leggi diverse dalle
leggi che governano la natura, come “un impero in un
impero”. Perciò diviene possibile ignorare che la scuola, in
tutto il mondo, sia stata investita da un mutamento epocale: prima
tassi moderati ma costanti di crescita della popolazione scolastica a
livello secondario e universitario, proprio attorno al ’68, poi un vero
e proprio boom, negli anni ’80-’90, che ha portato ad una frequenza
dell’80-90% della popolazione in età giovanile. Coloro che vedono nel
’68 l’innesco di una crisi morale dell’istruzione non vogliono vedere
che il ’68 stesso è stato il prodotto di una trasformazione di lunga
durata che risale al boom mondiale del secondo dopoguerra: riduzione
drastica della forza-lavoro in agricoltura, crescita accelerata
dell’industria e dei servizi, accesso ai beni di consumo durevole della
popolazione operaia e di estrazione popolare.
Di fronte alla massificazione, alla generalizzazione dell’istruzione
secondaria alla maggioranza della popolazione, c’è stato un calo della
qualità della scuola? Personalmente credo che non si possa che
rispondere in senso affermativo. La massificazione conduce ad un calo
della qualità, poiché la cultura non è di casa allo stesso modo in
tutte le famiglie. Io, figlio di un prof di filosofia, ero il più bravo
della classe nelle materie letterarie, e mio padre non mi ha mai dato
lezioni private. In questi ultimi decenni il problema è stato molto
discusso nell’ambito della sociologia dell’educazione, e molti hanno
cercato di attribuire la differenza statistica dei risultati scolastici
tra le diverse classi sociali a fattori diversi dalla cultura quali il
reddito, le strategie familiari legate alle diverse mentalità, a
fattori interni di organizzazione degli istituti, o agli handicap
educativi nei primi anni di vita. Personalmente ritengo che il fattore
dell’eredità culturale, messo al centro del discorso da Bourdieu e
Passeron ne Les héritiers del 1964, rimanga sempre il fattore
esplicativo migliore della diseguaglianza dei risultati scolastici
parallela alla diseguaglianza delle origini sociali. Ovviamente, quando
si parla di diseguaglianza sociale dei risultati scolastici non si
emette una condanna per i ragazzi dei ceti popolari a rimanere
ignoranti a vita, visto che lo stesso Bourdieu, che ha proposto la tesi
dell’eredità culturale o della “riproduzione sociale”, era figlio di
contadini. Si parla invece di un differenziale di probabilità di
accedere a titoli di studio e a posti prestigiosi. Che, dicono le
statistiche, permane nel tempo, solamente traslato verso l’alto.
Bene, come voleva e fece Giovanni Gentile, e come vogliono i tanti
assertori del “diritto a non studiare” di oggi, escludiamo dalla scuola
le maggioranze dei non acculturati, e vedrete che ritroveremo il gusto
dello studio e dell’insegnamento. La scuola dei meritevoli e dei
motivati rimane, oggi come ai tempi di Don Milani, la scuola dei pochi.
Ma la massificazione della frequenza scolastica ha portato un altro
fattore di crisi strutturale, che non può che rifrangersi sulla qualità
dell’istruzione: l’inflazione del valore dei titoli di studio. La
scuola produce “pezzi di carta”, assolutamente necessari per tutti,
poiché il diploma di secondaria superiore è necessario anche per fare
il bidello. Ma, chiaramente, la crescita del numero dei diplomati ha
condotto all’inflazione del valore del diploma. E, tutto ciò, non
dovrebbe avere riflesso alcuno all’interno delle aule scolastiche? Il
famoso senso di sacralità, tanto venerato, che un tempo circondava la
scuola, e rafforzava l’autorità dei professori, era dovuto ad un più
alto senso di moralità degli uomini del buon tempo andato, oppure era
il riflesso della certezza che il diploma avrebbe assicurato
opportunità di carriera e di mobilità sociale, proprio perché si
trattava di un bene scarso?
L'inflazione del valore dei titoli di studio è anche – indirettamente
- alla base anche del declino del ruolo sociale e della posizione
economica degli insegnanti. Gli attacchi al welfare state e alla
categoria insegnante, accusata di essere responsabile di un calo della
qualità dell'insegnamento, trovano terreno fertile nella crisi della
scuola, determinata invece dalla sua massificazione e
dall’inflazionamento del suo prodotto. L'investimento pubblico rende
meno, perché il prodotto della scuola, il titolo di studio, è
deprezzato. Allora, c’è buon gioco ad accusare di volta in volta gli
insegnanti e gli allievi di essere i responsabili soggettivi della
crisi (ma ci accorgiamo che è un gatto che si morde la coda, e che
l’accusa in fondo è sempre la stessa?), per legittimare la riduzione
degli investimenti nella scuola pubblica e nei salari (in termini di
reddito reale al netto dell'inflazione) degli insegnanti.
Noi insegnanti siamo una categoria oggettivamente in declino, in
ragione di una crisi di natura strutturale, e in secondo luogo di
politiche neoliberiste che hanno tratto vantaggio da tale crisi.
Personalmente, credo che la Mastrocola e gli altri ragionino un po'
come quei piccoli nobili decaduti che, prima della rivoluzione
francese, rimanevano attaccati ai loro piccoli privilegi e ai loro
segni di distinzione. Noi siamo sempre consapevoli degli effetti – è
sempre Spinoza che parla – ma non sempre lo siamo delle cause.
Non possiamo fare altrimenti, per reagire al declino, che difendere il
diritto di tutti e tutte al “pezzo di carta”, ovvero il diritto
all’istruzione pubblica. E direi non perché la massa generi più posti
di lavoro per noi, ma perché la massificazione della scuola, con tutte
le contraddizioni di cui sopra, è stata il frutto di un progresso
civile. La scuola ha perduto di qualità perché, per fortuna, grazie a
lotte decennali, è diventata di massa. Ovviamente, la mia conclusione
ha una venatura pessimistica, e alla domanda se sia possibile far
crescere la qualità della scuola pur in una condizione di accesso
universale all’istruzione, risponderei che credo sia possibile, ma
senza illusioni di rapide e improvvise rivoluzioni. Le ricette
miracolose degli ultimi trent’anni, ultima delle quali è la valutazione
del merito degli insegnanti, hanno sempre risvolti regressivi e – come
ha dimostrato Diane Ravitch – producono disastri. Comunque, leggendo
Bourdieu sono arrivato alla conclusione che, nella considerazione dei
fatti sociali, tra cui la scuola occupa un ruolo rilevantissimo, lo
stoicismo non è necessariamente una filosofia conservatrice: essere
consapevoli del fatto che molto di ciò che ci accade non è in nostro
potere non è necessariamente segno di fatalismo. Può esserlo, invece di
saggezza.(da ScuolaOggi)
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