Per capire cosa sia la
baronia nelle università italiane, giova citare la frase di un padre
del giornalismo come Lino Jannuzzi: «Sfogliando l’ultimo annuario
accademico - scriveva il giornalista alcuni anni fa - sembra di leggere
le tavole della legge di Mendel, tale è la regolarità con cui si
succedono i nomi dei padri e dei figli nella stessa professione, nella
stessa facoltà, spesso nella stessa cattedra». Altri due giornalisti,
Davide Carlucci e Antonio Castaldo, hanno scritto un documentatissimo
libro che già nel titolo dice tutto: «Un paese di Baroni» (edito da
Chiarelettere) in cui riportano il fatto che «i rettori hanno famiglia
in 25 delle 59 università statali italiane. Quasi il 50 per cento
(42,3) ha nella medesima università un parente stretto, quasi sempre un
altro docente». Giacomo Elias è stato professore di fisica tecnica
nella facoltà di Agraria della statale di Milano, ma è anche un padre
fondatore del sistema di valutazione a suo tempo introdotto dal
ministro Letizia Moratti. Professore, la legge Gelmini che
vorrebbe una carriera fatta solo di meriti e non di conventicole, è già
stata aggirata?
«Senta. Io ho insegnato 51 anni e conosco bene come funzionano i
concorsi. Mi creda: si può fare la legge più rigorosa e severa ma,
tempo tre mesi, i miei colleghi troveranno il modo di piegarla alle
esigenze della corporazione».
Dunque siamo veramente un paese di baroni.
«Magari lo fossimo! I baroni, quelli dei tempi miei, avevano una
faccia, un reputazione internazionale da difendere, e magari facevano
anche parecchi imbrogli, ma con una certa cautela, proprio per la loro
visibilità pubblica. Questi, invece, chi li conosce? Ai più i loro nomi
non dicono niente, e le pastette si possono fare molto meglio. Legge o
non legge, si capisce».
Se le cose stanno così, dobbiamo rassegnarci ad una università gestita
come una cupola mafiosa?
«Ma no, ma no! Quello che voglio dire è che un sistema perfetto di
valutazione è utopistico. La legge stessa parla di “valutazione
comparativa”, e cioè di un criterio che non pretende di trovare il
docente perfetto, ma il migliore (o il meno peggio) tra quelli che si
presentano».
Ma i titoli dicono tutto di un candidato. O no?
«No. Ed è questo il punto: non basta essere eccellenti scienziati e
aver registrato dei brevetti, perché questo lo può fare anche un genio
solitario. Noi scegliamo, in sede di concorso, un docente, che deve
saper insegnare, cioè trasmettere delle conoscenze a degli allievi, e
deve anche saper lavorare all’interno dell’università. Le sole
competenze scientifiche non bastano, è come per l’esame di maturità,
ciò che si considera è il dato complessivo di preparazione, di titoli
ma anche di attitudine alla didattica. E comunque - creda a me - la
valutazione perfetta non esiste: un concorso è un concorso, mica il
giudizio universale». (di Raffaello Masci da La Stampa.it)