Tra il dire e il
fare c’è di mezzo il mare. Esiste un divario ampissimo tra le
competenze che un insegnante dovrebbe avere e quelle che i docenti
italiani effettivamente possiedono.
Prendiamo, ad esempio, le tecnologie: sempre “nuove”, a dispetto dello
scorrere dei decenni. Ci muoviamo in apparenza in uno scenario che
tende a sostituire il libro cartaceo con l’e-book, ma svolgiamo ogni
giorno le nostre lezioni in aule in cui esiste spesso una sola presa
per la corrente. Un mondo in cui molti di noi, come ha dimostrato
una ricerca condotta dal prof. Domenici dell’Università RomaTre, non
sono in grado di usare un computer, se non per approcciare con fatica
programmi di scrittura.
D’altro canto, celebriamo il trionfo della Lavagna interattiva
multimediale, nuovo totem tecnologico dell’apparente modernità cui
circolari, rappresentazioni mediatiche e intenzioni organizzative
(rigorosamente e volontariamente abbandonate alla fase dell’annuncio)
vogliono adattare la scuola. Una scuola che non c’è, ora più che mai,
assillati come siamo da problemi di stentata manutenzione del
quotidiano, da cure che sono il segno del declino inarrestabile
dell’idea di scuola della Costituzione, di scuola emancipante, favorito
e accellerato da una lettura governativa che la vede luogo di risparmi
attraverso la scellerata politica dei tagli.
Tecnologia e modernità, come Europa, sono parole che taumaturgicamente,
per loro stessa natura, sembrano schiudere scenari comunque positivi. E
invece, si stanno dimostrando, giorno dopo giorno – nell’abuso e
nell’indifferenza al rapporto necessario tra annuncio e realizzazione –
categorie dell’auspicabile e specchio del fallimento delle apparenti
intenzioni. Perché le intenzioni, se non sono corroborate da precisa e
ferma progettazione, da studio attento, da convinzioni motivate,
rimangono etichette vuote e malinconiche di ciò che sarebbe potuto
essere.
La scelta è far finta di credere che alle parole corrisponda una
sostanza; o continuare a denunciare il drammatico divario tra parola e
realtà, nella speranza che non prevalga lo scetticismo, affogando il
poco entusiasmo che resta nell’avere nel proprio profilo prefessionale
la – un tempo nobile – etichetta di insegnante. Nella scuola di un mio
amico sono state rimosse dalle aule prescelte le lavagne di ardesia
murate per lasciar posto alle Lim che dovranno essere lì collocate. I
colleghi, in assenza della lavagna, hanno cominciato a scrivere sul
muro: non artistico ritorno al graffito, ma simbolica risposta di una
categoria che non trova più la propria dimensione identitaria e
professionale. Se fa ridere o fa arrabbiare, non so. È certo che molti
di noi questo sono diventati. E che gli annunci della Scuola 2.0 che il
ministro e i suoi luogotenenti continuano a propagandare, dimenticando
volontariamente lo stato dell’esistente e usando una demagogia tanto
più periocolosa perché riduce drammaticamente la speranza di ripresa
culturale della nostra scuola, aumentano il disagio. ( di Marina
Boscaino da Flc-Cgil)
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