È finita la pietà italiana? E dov' è la solidarietà di quel popolo che nelle disgrazie si scopre appunto popolo e dà il meglio di sé? Perché gli italiani non stanno dicendo in coro «siamo tutti messinesi» come dissero «siamo tutti aquilani»? Forse perché è uno di quei luoghi, questa nostra disgraziata Sicilia, dove la disgrazia è considerata endemica, il prolungamento della normalità.
È una di quelle aree umane dove è meglio farsi gli affari propri, non dare quel che si diede ai terremotati dell' Aquila, evitare di farsi coinvolgere come accadde in Abruzzo e prima ancora in Umbria, ad Assisi, in Friuli, a Firenze: a Messina elemosina ed elemosiniere rischiano di fare la stessa fine dell' elemosinato. Certo, le proporzioni delle tragedie sono diverse. Ma senza elencare ciascuno i propri morti e senza mettersi a pesare le lacrime, è sicuro che la disgrazia al Centro e al Nord fa esplodere gli animi e stimola la fraternità e le sottoscrizioni, mentre la disgrazia al Sud, specie a quel Sud del Sud che sono Sicilia e Calabria, provoca rassegnazione e diffidenza, addolorate alzate di spalle, una stanca pietà che mai diventa solidarietà, aiuto e partecipazione. Non c' è persona per bene, non c' è italiano generoso che non pensi che
la Sicilia , otre che disgraziata, sia violenta, imprevedibile, inaffidabile, sprecona, confusionaria, corrotta, mafiosa. Pensa dunque, l'italiano generoso, che rischia di diventare di fango chi si immerge in questo fango. È la paura del contagio che uccide la pietà. Messina alluvionata somiglia a certe aree delle grandi città del mondo: chi aiuterebbe un malato in un vagone della metropolitana, di notte, nella banlieue di Parigi? Lo so: è di questo pregiudizio che si nutre il razzismo bestione della Lega. Ma siamo sicuri che sia un pre-giudizio? E se fosse un ... giudizio? E se fosse fondato? E comincio col dire che l'indifferenza per lo strazio di Messina è figlia della Cassa per il Mezzogiorno, delle varie Gioia Tauro, delle baraccopoli del Belice e di Lentini e di quelle della frana di Agrigento. E ancora: dell' imbroglio sistematico ai danni dello Stato dei produttori di arance, delle cattedrali nel deserto, delle raffinerie di Gela, del finanziamento a pioggia dei vini siciliani che, con la loro sovrapproduzione, rischiano già di rivelarsi un altro bluff. E poi ci sono gli insensati sprechi e gli sguaiati privilegi della casta siciliana denunziati sistematicamente dai mosconi escrementizi, mosconi leghisti. E però gli escrementi ci sono e sono veri. Purtroppo. Infine c' è il neosicilianismo dell' attuale presidente della Regione che, coniugando il papismo borbonico con il vittimismo antieuropeista, rilancia la solita voracità dell' euroaccattonaggio. Il neosicilianismo è il leghismo del mendicante. Dall' agricoltura ai trasporti, dalla sanità all' istruzione, la politica siciliana è stata ed è la caccia al tesoro delle finanze derivate. Qui i politici vorrebbero voli gratis per i siciliani, benzina a metà prezzo, "quote" siciliane ovunque si possa bagnare il becco, «bagnarisi ' u pizzu». Ma anche nella pietà si può bagnare il becco. C' è l' eterna parabola di Gibellina a insegnare che soccorrere il Sud può essere inutile e pericoloso. Un grande, rimpianto giornalista e scrittore palermitano, Mario Farinella, andò nel Belice e scrisse che i terremotati piantavano dinanzi all' uscio delle loro baracche non fiori e piante, ma alberi: sapevano di avere tempo. E ancora l' indifferenza per la tragedia di Messina va messa in conto a tutti i meridionalisti di ierie di oggi. A quelli che esaltano il pensiero meridiano, colti e raffinati professori e scrittori, giornalisti, sociologi ed economisti che hanno celebrato nel sicilianismo un mal di vivere letterario. C' è ancora chi scopre nell' arretratezza del lentissimo Sud il bello e l' antico che resistono alle regole dello sviluppo. I libri dei meridionalisti sono di nuovo pieni di rabbia contro la fretta e la tecnica del Nord. Di nuovo la letteratura esalta chi va piano come i fatiscenti treni siciliani. Sino all' amore per le sieste, all' illusione che esiste un popolo contento di avere in tasca soltanto le mani, ai circhi dell' emergenza che defiscalizzano e finanziano le non-ricostruzioni: squadre speciali e finanziamenti speciali, professionisti dell' anticatastrofe, pozzi neri senza fondo. E mentre il Nord del mondo corre, costruisce e cambia, al contrario finisce sepolto dal fango il popolo che si batte contro le strade, contro i ponti, contro lo sviluppo, contro gli alberghie le funivie, questo popolo che non capisce che la bellezza non è la povertà dell' accattone ma è la ricchezza del produttore e dell' imprenditore moderni. Le concessioni edilizie sui terreni franosi sono tipiche della povertà anche mentale, dell' estemporaneità senza competenze e dell' assessore cieco di Baarìa, che era occhiutissimo solo per le bustarelle. Abbiamo costruito sui greti e sui pendii, sull' argilla e sulla bocca del vulcano. Abbiamo costruito dovunque ma non dove dovevamo costruire. Perché non abbiamo imprenditori, perché non sono imprenditori i nemici giurati dei geologi e degli architetti. Da tempo ho smesso di pensare che il buon giornalismo possa cambiare il mondo. Sono però sicuro che il cattivo giornalismo lo danneggia. Ecco: buon giornalismo è chiederci, noi siciliani recidivi, perché l' Aquila ha commosso gli italiani, mentre Messina, con quelle immagini di fango che seppellisce fango, fa più paura che pena.