SCUOLA, LA PEPITA D’ORO E LA VILE PACCOTTIGLIA
La condizione attuale, e conseguentemente il destino, della pubblica Istruzione è una vexata quaestio su cui si sono sprecati e si sprecano tutt’oggi e fiumi e fiumi di inchiostro. Ognuno dice più o meno bonariamente e più o meno in buona fede la sua: c’è chi se la prende con l’ex ministro Letizia Moratti e la sua odiosa riforma, chi condanna l’aziendalismo che ha trasformato una vecchia istituzione culturale in una moderna macchina sforna diplomati, chi la vorrebbe più per democratica ancora, dimenticando che non potrebbe esserlo di più, chi ancora lamenta l’innegabile avvilimento morale e materiale in cui versano gli insegnanti, i veri motori della formazione delle giovani generazioni.
E pi c’è chi comincia dettagliate e arzigogolate analisi del rapporto scuola-società, individuando, e certo non a torto, una forte scollatura tra il mondo dell’istruzione e la triste realtà del mondo del lavoro, vedendo così nella scuola né più e né meno che la vecchia donna truccata di pirandelliana memoria.
Ma forse, al di là di tutti i suddetti fattori, una considerazione sorge, semplice semplice, al punto da rasentare la banalità, una considerazione che si nutre, guarda caso, proprio di quell’economia che tanto si vuole tenere lontano dalla formazione dei giovani. La verità è che, diciamocelo chiaro e con coraggio, miei cari operatori della scuola, noi vendiamo una merce preziosa, preziosa sì, ma…solo per noi: è la famigerata cultura, un tempo nutrimento delle menti degli alunni e oggi misera paccottiglia svalutata, dilaniata da una società che si fa una bella risata della persona colta, se il suo portafoglio non è pieno. E questo, ahimè, i ragazzi lo percepiscono nettamente e chiaramente, e a volte (è solo una mia impressione?) ci guardano con un po’ di commiserazione, mentre tentiamo di trasmettare la bellezza di certe pagine o di certi personaggi.
E’ tutta qui la discrasia: tra quella pepita d’oro nelle nostre mani che si tramuta nel mondo moderno in vile metallo da quattro soldi. Punto e basta.
SILVANA LA PORTA
La condizione attuale, e conseguentemente il destino, della pubblica Istruzione è una vexata quaestio su cui si sono sprecati e si sprecano tutt’oggi e fiumi e fiumi di inchiostro. Ognuno dice più o meno bonariamente e più o meno in buona fede la sua: c’è chi se la prende con l’ex ministro Letizia Moratti e la sua odiosa riforma, chi condanna l’aziendalismo che ha trasformato una vecchia istituzione culturale in una moderna macchina sforna diplomati, chi la vorrebbe più per democratica ancora, dimenticando che non potrebbe esserlo di più, chi ancora lamenta l’innegabile avvilimento morale e materiale in cui versano gli insegnanti, i veri motori della formazione delle giovani generazioni.
E pi c’è chi comincia dettagliate e arzigogolate analisi del rapporto scuola-società, individuando, e certo non a torto, una forte scollatura tra il mondo dell’istruzione e la triste realtà del mondo del lavoro, vedendo così nella scuola né più e né meno che la vecchia donna truccata di pirandelliana memoria.
Ma forse, al di là di tutti i suddetti fattori, una considerazione sorge, semplice semplice, al punto da rasentare la banalità, una considerazione che si nutre, guarda caso, proprio di quell’economia che tanto si vuole tenere lontano dalla formazione dei giovani. La verità è che, diciamocelo chiaro e con coraggio, miei cari operatori della scuola, noi vendiamo una merce preziosa, preziosa sì, ma…solo per noi: è la famigerata cultura, un tempo nutrimento delle menti degli alunni e oggi misera paccottiglia svalutata, dilaniata da una società che si fa una bella risata della persona colta, se il suo portafoglio non è pieno. E questo, ahimè, i ragazzi lo percepiscono nettamente e chiaramente, e a volte (è solo una mia impressione?) ci guardano con un po’ di commiserazione, mentre tentiamo di trasmettare la bellezza di certe pagine o di certi personaggi.
E’ tutta qui la discrasia: tra quella pepita d’oro nelle nostre mani che si tramuta nel mondo moderno in vile metallo da quattro soldi. Punto e basta.
SILVANA LA PORTA