Temo che
non siano molti coloro che conoscono la figura di Rita Atria.
Personalmente ho conosciuto la storia di Rita Atria grazie al film di
Marco Amenta, La siciliana ribelle,
uscito nelle sale cinematografiche nel 2009. Il film è liberamente
ispirato alla vicenda di questa ragazza, figlia di un boss mafioso
assassinato nei primi anni ‘80. Rita fu testimone oculare dell’omicidio
del padre e, alcuni anni dopo, venne ammazzato anche suo fratello. Per
vendicare i suoi cari la ragazza decise di denunciare gli assassini.
Grazie alla sua collaborazione con la magistratura, in modo particolare
con il giudice Paolo Borsellino che diventò per lei come un secondo
padre, furono arrestati i mafiosi da lei accusati e fu avviata
un’indagine sull’ex sindaco di Partanna, il paese natale di Rita.
Il 26 luglio di ogni anno si commemora la figura di Rita Atria, che a
soli 18 anni decise di togliersi la vita gettandosi da un balcone posto
al settimo piano di una palazzina di Roma, dove viveva segretamente.
Accadde esattamente una settimana dopo la strage di via d’Amelio del 19
luglio 1992, nella quale perirono il giudice Borsellino e la sua
scorta. La decisione di collaborare con la giustizia aveva spinto Rita
in uno stato di estrema solitudine anzitutto sotto il profilo
socio-affettivo. L’omicidio di Borsellino le fu fatale. Per infangarne
la memoria anche dopo la morte, la madre, che l’aveva già ripudiata in
vita, ne danneggiò la lapide a colpi di martello.
Ciò che mi preme sottolineare è soprattutto il coraggio interiore e la
forza morale di questa “novella
Antigone”, un’eroina dei nostri tempi, una ragazza capace di
rinunciare addirittura alla sfera degli affetti più cari pur di
realizzare il proprio ideale di giustizia. In un’epoca in cui i simboli
dell’anti-mafia sono personaggi del calibro di Falcone e Borsellino,
oppure Peppino Impastato ed altri, figure considerate minori o
secondarie come quella di Rita sono di fatto eclissate e ridotte ai
margini della memoria collettiva.
Il gesto di chi sacrifica tutto per un ideale, impone un ragionamento
sul tema dell’“omertà sociale”,
cioè la tacita complicità con chi delinque. Nel gergo mafioso chiunque
infranga il codice dell’omertà, tentando di far luce su una verità, è
disprezzato come un “infame”.
L’infausta catena omertosa è la base culturale su cui si erge il potere
costrittivo e terroristico delle mafie. Per cui la frase che esprime
meglio l’omertà sociale è: “Non vedo,
non sento, non parlo”. Da qui l’uso intelligente del linguaggio,
se necessario urlato, per comunicare un gesto di rottura contro il
silenzio dell’omertà, della complicità con il crimine economico e
politico in generale. Il linguaggio della verità costituisce un modello
educativo improntato a codici non oscurantistici, bensì più aperti e
democratici.
In teoria la parola può servire a spezzare le catene dell’ignoranza,
dell’indifferenza e dell’ipocrisia sociali derivanti dal codice
omertoso. Antonio Gramsci scriveva che “la verità è sempre rivoluzionaria”.
Il linguaggio della verità è, infatti, profondamente “sovversivo” e giova alla causa
della libertà e della giustizia sociale, rompendo o modificando
comportamenti che ci opprimono e ci indignano. La parola, in quanto
testimonianza di un altro modo di intendere e di costruire i rapporti
interpersonali, improntati ai principi della solidarietà, della
libertà, della giustizia e della convivenza democratica, è una modalità
eversiva rispetto all’ordine omertoso imposto dalla mafia e, per
estensione, rispetto al potere oppressivo della criminalità economica
capitalistica.
Il delitto, il cinismo, l’ipocrisia, la sopraffazione sono elementi
intrinseci al sistema mafioso, ma si iscrivono nella natura più intima
dell’economia capitalista. La logica mafiosa è insita nella struttura
stessa del sistema affaristico che domina in ogni angolo del pianeta,
ovunque riesca ad insinuarsi l’economia di mercato e l’impresa
capitalista con i suoi misfatti. Ciò che eventualmente può variare è
solo il differente grado di “mafiosità”,
di irrazionalità e di aggressività terroristica dell’imprenditoria
capitalistica.
C’è chi sopprime fisicamente i propri avversari, come nel caso delle “onorate società” riconosciute
apertamente come criminali, mentre c’è chi ricorre a metodi meno rozzi,
apparentemente più raffinati, ma altrettanto spregiudicati e pericolosi.
Non a caso, Honoré de Balzac scriveva: “Dietro ogni grande fortuna economica si
annida un crimine”.
Lucio Garofalo
l.garofalo64@gmail.com