CATANIA.
Sfiancati da una precarietà che talvolta si trascina fino alle soglie
della pensione; umiliati da una professione che ha perso il prestigio
sociale, con lo stipendio senza più alcun potere d’acquisto; demotivati
da un sistema che destabilizza il rapporto con i bambini e con le
famiglie; eppure sempre innamorati del proprio lavoro e consapevoli di
un ruolo che - nonostante tutto - resta decisivo
nella nostra società. Ecco: prima di dire che non ci sono più i maestri
di una volta, appuntiamoci questi due o tre concetti.
Che magari ci spiegheranno perché loro, gli insegnanti di scuola
elementare (oggi chiamata primaria), sono forse il simbolo più triste
di un’Italia che non c’è più. Quella del dettato in bella scrittura e
delle tabelline a cantilena, quella della
maestra-chioccia con la gonna sotto il ginocchio e il cuore sopra ogni
altra cosa, quella senza i Pof ma con meno errori di
grammatica. Nessun revanscismo da Libro Cuore, ma sui banchi c’è tanta
nostalgia per la maestra che fu. Come quella di
Alfredo Paternò, 41 anni, insegnante elementare con cattedra annuale a
Vercelli e famiglia a Militello Val di Catania.
Quando la "maestra Maria" parlava con la madre del piccolo alunno erano
pomeriggi da brivido: «In italiano tutto bene,
ma l’aritmetica...». Dopo aver ascoltato in silenzio le parole
dell’insegnante, un rispettoso saluto. E poi a casa: punizione
esemplare e ripasso a raffica. E oggi? «Quando segnalo una carenza di
apprendimento a una mamma - racconta l’insegnante - sette volte su
dieci la risposta è:
"Ma non è che lei non ha spiegato bene?".
Ecco, questo rapporto con la famiglia, quella che un termine forse
sorpassato, si definiva l’unica agenzia educativa oltre alla scuola, è
forse il segno più chiaro di come è cambiato il nostro lavoro».
Ma chi sono i maestri e le maestre di oggi? Da una parte gli oltre
240mila dipendenti statali con contratto a tempo indeterminato;
dall’altra una massa di precari (30mila quelli che l’anno scorso hanno
ricevuto un incarico a tempo determinato), respinti alla frontiera
della stabilità lavorativa, senza nemmeno il permesso di soggiorno
della serenità familiare.
«La nostra - ammette Maria Grazia Alcantara, insegnante di Catania - è
una delle professioni più bistrattate e difficili, a partire dai
criteri di accesso. Ognuno di noi, prima di sedersi su una cattedra
definitiva e "serena", arriva sfiancato, demotivato, talvolta umiliato.
Anche prima c’era la gavetta: le supplenze in posti assurdi, il
concorso. Ma dopo qualche anno arrivava la sistemazione e un docente
poteva quindi investire su di sé, sulla propria professionalità, sulla
voglia
di svolgere bene un lavoro che si fa per amore e per passione, non
certo per diventare ricchi...». Per capire le parole di Maria Grazia
basta andare, tra fine agosto e settembre, alle convocazioni per le
supplenze. Migliaia di docenti ammassati
in sedi anguste, con la polizia che prima o poi arriva sempre e con
l’aria irrespirabile che si mischia al sudore e alla
paura di non farcela. «Quest’anno niente cattedra, sono tornata
indietro: supplenze brevi, in qualsiasi posto ti chiamino. O
accetti o resti a casa, non c’è altra scelta».
Eppure dietro la lavagna ci finiscono loro: peggioramento della qualità
dell’insegnamento e poca attenzione alle vecchie
regole base, a partire dalla grammatica.
«I bambini di oggi hanno mille input diversi - spiega Paternò -
rispetto a un modello di conoscenza che prima dipendeva
fortemente dal maestro. La televisione, internet e i telefonini, che
cominciano a comparire negli zainetti anche degli alunni di quarta,
rendono i bambini molto più sensibili alle sollecitazioni del mondo».
Ma meno rispettosi verso i loro insegnanti. Anche verso chi sta li da
quasi quarant’anni. Come Angela Coco, 63 anni e 38 d’insegnamento.
Primo stipendio: 117mila lire, sostanzioso contributo per comprare una
Fiat 126. «All’inizio della mia carriera - racconta la
maestra Coco - quando entravo in una classe di trenta alunni non volava
una mosca. Oggi le classi sono meno numerose
ma più incontrollabili. È il segno dell’evoluzione, o forse
dell’involuzione dei tempi e questo si nota anche nel rapporto
con le famiglie». Già, il famigerato rapporto con le famiglie. «La
diffusione della cultura di massa - spiega la Alcantara
- ha reso i genitori più consapevoli ma anche più sospettosi e meno
rispettosi. E ciò condiziona anche la vita di
classe: forse c’è troppa pedagogia e poca educazione...».
Ma è sui metodi d’insegnamento che le visioni della vecchia e della
nuova generazione si allontanano. «Poche tabelline?
Dipende dai programmi e dall’organizzazione del lavoro», sostengono i
giovani insegnanti. Che approfondiscono il
concetto: «Fra progetti multimediali, recite e spettacoli non sempre
c’è la possibilità di ripetere cinque volte la lezione
sulla "a" con l’acca e senza acca. Si deve andare avanti, anche se
qualcuno avrebbe bisogno di qualche ripetizione in più».
Eppure la maestra più esperta sostiene: «Sì, ci sono i laboratori e i
progetti. Forse troppi. Ma la rivoluzione dei moduli un
effetto positivo l’ha avuto: ognuno di noi ha una maggiore
specializzazione nella propria disciplina e quindi ha tutti gli
strumenti per dare ai bambini le nozioni basilari. Anche la grammatica
e le tabelline...». La maestra Angela oggi è alle
soglie della pensione col massimo dell’anzianità di servizio. «Potrei
anche lasciare l’anno prossimo, ma ho una prima
e mi piacerebbe portarla fino alla fine, come ho fatto con tutte le
classi che ho avuto. E poi l’ho promesso ai genitori: alcuni
di loro sono stati anche miei alunni, loro ci tengono. Io sono sempre
la loro maestra...». Senza le rate della 126 da
pagare, ma con la gonna sempre sopra il ginocchio. E un immutato amore
per quella cattedra che scotta.
La Sicilia del 17 gennaio 2010, MARIO BARRESI