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Nuove Tecnologie: Lo scoiattolo che ha messo ko la nostra connessione

Rassegna stampa
Andrew Blum esplora la fisicità di Internet. Un mondo che trasporta 15 milaPagine al secondo. Internet non è un paesaggio della mente o un luogo virtuale. La «Rete delle reti» è fatta di macchine, cavi, fibra ottica, luce. Ha una realtà fisica e una geografia ben precisa. Di cui, tuttavia, non ci curiamo. E che non conosciamo. Per Andrew Blum, giornalista di «Wired» e autore del volume Tubes appena edito negli Stati Uniti, è colpa di una concettualizzazione del web viziata da troppi anni di contrapposizione frontale tra il virtuale, il cyberspazio, e il mondo che ci circonda. E di un lessico ambiguo, che perpetua l’equivoco. Si prenda la parola «nuvola» (cloud), che identifica il trasferimento dei nostri dati dagli hard disk di casa ai server in Rete: «È un termine così poco chiaro, non sappiamo dove sia», dice Blum. «Ma più deleghiamo il controllo alla “nuvola”, più è importante sapere dove sono le cose che la compongono, e come sono connesse». Blum ne scopre le concretissime conseguenze in un pomeriggio d’inverno, quando la Rete smette di funzionare nella sua casa di Brooklyn: è bastato che il rosicchiare di uno scoiattolo tranciasse un cavo. È lo spunto per chiudere il pc e intraprendere un «viaggio al centro di Internet», tentando di rispondere alla domanda: ma a cosa siamo realmente connessi? E come? L’autore, come un Marco Polo del digitale, esplora per due anni i luoghi inesplorati della geografia del web. Vola a Los Angeles per vedere la macchina che ha trasmesso il primo segnale sulla rete Arpanet, l’antenato di Internet, e a The Dalles, Oregon, sede della «Kathmandu dei data center»: i «magazzini della nostra anima digitale». A Palo Alto visita uno dei principali snodi della connessione globale, il Paix (Palo Alto Internet exchange) e annota: «Queste connessioni sono sempre fisiche e sociali, fatte di cavi e relazioni. Dipendono dalla rete umana tra ingegneri di Rete». Il giornalista scopre così che in un centro di smistamento del traffico internet (Internet Exchange Point) «vengono trasferiti in media intorno agli 1,2-1,3 terabit al secondo»: che equivale a circa 700 enciclopedie da 15 mila pagine al secondo. «Pensiamo che quando i dati viaggiano attraverso Internet sia un processo istantaneo e automatico — aggiunge durante una conversazione su Skype — invece può accadere solo perché un piccolo gruppo di ingegneri ha costruito la Rete con le proprie mani». Le strutture dipendono dalla geografia. Per un data center serve un luogo senza rischi sismici e asciutto — perfetto per rinfrescare gli hard disk con l’aria fresca. E conta la disponibilità di quantità enormi di energia elettrica (consumano il 2% di quella del pianeta). Alla sicurezza degli scanner biometrici e della videosorveglianza, si aggiunge la segretezza: «La prima regola dei data center è non parlare dei data center», scrive l’autore, come servisse un fight club per proteggere i nostri dati. Poi ci sono i cavi sottomarini che mettono in Rete i continenti. I percorsi dei bit seguono quelli della storia, facendo scalo in porti secolari: Hong Kong, Singapore, New York, Mumbai, Cipro. Navi specializzate conducono ricognizioni sul fondo dell’oceano, disegnando attentamente i percorsi su cui stendere i cavi, evitando le linee solcate dalle imbarcazioni e minimizzando il rischio di danni. Un errore può essere fatale: quando nel 2006 un terremoto a sud di Taiwan causò un movimento del fondale marino recidendo in più punti sette dei nove cavi che innervano la regione asiatica, Cina, Hong Kong e lo stesso Taiwan andarono offline. E ci vollero due mesi per ristabilire la normalità. Per Blum i limiti fisici di Internet non sono un ostacolo al suo sviluppo. Semmai, «ciò che ho compreso una volta tornato a casa è che Internet non è un mondo fisico o virtuale, ma è un mondo umano». A farlo funzionare, due figure. Gli ingegneri di Rete («nerd estremi») e chi lavora alla posa dei cavi sottomarini: «Hanno tutti 42 anni», dice Blum sorridendo. «Sono grossi, perché trascorrono un sacco di tempo in bar per marinai. E hanno quest’attitudine da James Bond, da cittadini del mondo a loro agio ovunque». Figure dimenticate da una storia di Internet che, come nota la scrittrice Christine Smallwood, è, soprattutto, «una storia di metafore su Internet».
Twitter @fabiochiusi
Fabio Chiusi
www.lettura.corriere.it








Postato il Domenica, 01 luglio 2012 ore 14:00:00 CEST di Antonia Vetro
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