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Voce alla Scuola: ROMANO LUPERINI ESPRIME IL SUO PARERE SULLA ''RIFORMA'' GELMINI

Comunicati
Condivido in pieno il documento proposto dalla sezione didattica (insegnanti delle scuole medie superiori) dell'ADI (Associazione docenti di italianistica) e poi approvato dall'assemblea generale di questa associazione, composta dai professori di letteratura italiana dell'università. Ti accludo dunque il documento che esprime pienamente il mio punto di vista. Aggiungo solo che chiamare "riforma" i vari progetti della Gelmini è veramente troppo: una riforma della scuola presupporrebbe un progetto culturale che qui non c'è assolutamente. C'è semmai il proposito di ridimensionare la scuola pubblica, così come si va facendo anche con la università e anche con  l'editoria scolastica. Tutto il resto è solo qualche tocco di restaurazione stile anni cinquanta. Oppure si pensa di ripristinare la dignità degli insegnanti dando loro il permesso di dare cinque in condotta, quando la via maestra sarebbe quella di una loro crescita culturale e di un più conveniente trattamento economico? Se si decide solo di tagliare i fondi, di ridurre il personale, di mortificare il corpo docente, si ritiene davvero di restaurarne l'autorità?
Romano Luperini
 

Documento ADI-SD
18 settembre 2008

1. La linea dei tagli non è quella del rigore

È sempre difficile non sottoscrivere le affermazioni di principio, a cui non manca di ricorrere chiunque parli di scuola. Quelle del ministro Gelmini, fatte a luglio alla Commissione parlamentare “Cultura, Scienza e Istruzione”, ripetute in queste settimane in Parlamento e riprese con clamore dagli organi di informazione, non fanno eccezione: la scuola italiana, da troppi anni travolta da una crisi di fiducia e di funzione, deve ritrovare uno scatto di orgoglio nazionale di fronte all’Europa e al mondo e riportare entro un ambito di dignità i livelli di apprendimento di tutti gli studenti; deve perciò proporsi come il perno di un grande progetto sociale e di cittadinanza. Ma gli atti legislativi che sono seguiti alle belle parole hanno presto chiarito, senza orpelli retorici, quale scuola il ministro voglia: una scuola che costi poco; che imponga l’ubbidienza e affermi il principio di autorità; che sorvegli e punisca. Una ricetta che trova certo dei consensi nel Paese, ma che noi insegnanti di Italiano dell’ADI-SD respingiamo nettamente.
Il decreto-legge 112 (25.6.2008)  e quello 137 (1.9.2008) non lasciano spazio all’incertezza: in nome di un rigore e di una serietà concepiti in modo francamente discutibile, si misconoscono i bisogni formativi di una società complessa come la nostra e si fa piazza pulita del patrimonio di esperienze innovative maturate nell’ultimo quarantennio all’interno delle aule, per riproporre un modello di scuola rigido e inutilmente “tradizionale”, che soltanto miopia politica e ottusità culturale possono spacciare per risolutivo dei problemi del nostro sistema scolastico, specchio delle contraddizioni più generali. I ritocchi agli intonaci scrostati gettano un po’ di fumo negli occhi di un’opinione pubblica disincantata e distratta, ma non v’è dubbio che il bersaglio reale degli ultimi interventi normativi sono le fondamenta stesse dell’istruzione democratica: di fatto il quadro che si delinea è caratterizzato da un radicale ridimensionamento economico e progettuale dell’impegno pubblico verso la scuola, contravvenendo al dettato costituzionale.

2. Provvedimenti contro la scuola

Richiamiamo solo alcuni punti del disegno che inscrive il sistema formativo di base, dalla scuola primaria alla secondaria, all’interno del doppio binario dei tagli di spesa e della repressione del disagio.

a. Sul versante della cosiddetta razionalizzazione, la soppressione delle scuole di montagna e delle piccole isole, il ritorno all’insegnante unico nella scuola elementare, il drastico ridimensionamento del numero dei docenti (80-90000 posti solo nella scuola elementare), compresi quelli di sostegno, l’aumento del numero di alunni per classe - che non facilita i percorsi personalizzati per gli studenti stranieri né la riduzione del dropout, drammaticamente in aumento in alcune regioni -, il giro di vite sui corsi serali per gli adulti, il blocco del turn over al 20% (su cinque pensionamenti una sola assunzione), l’annunciata riduzione del tempo-scuola anche nella secondaria superiore e persino l’imposizione del tetto di spesa per i libri di testo negano platealmente la credibilità delle scelte ministeriali sulla scuola.

b. Sul piano pedagogico, il peso assegnato al voto di condotta nella valutazione dei processi formativi e l’accresciuta severità delle sanzioni disciplinari a carico degli studenti non tanto riaffermano il ruolo sociale dell’insegnante e dell’istituzione scolastica, bensì insistono sulla funzione repressiva dell’educazione a scapito di quella dialogica su cui si fonda ogni processo di insegnamento-apprendimento davvero motivante. 

c. Il rafforzamento della managerialità dei dirigenti, all’interno dell’autonomia scolastica, con l’attribuzione della prerogativa di reclutare direttamente il corpo docente, avvolge in un cono d’ombra perfino i propositi condivisibili di introdurre carriere professionali per premiare i docenti più meritevoli e di realizzare un sistema integrato di valutazione dei processi di apprendimento, della qualità/efficacia dell’insegnamento e dell’efficienza organizzativa.

d. La prevista adozione di meccanismi di ripartizione delle risorse pubbliche in proporzione ai risultati formativi - rilevati da un organismo terzo e pubblicati annualmente in una classifica regionale - e il riconoscimento alle famiglie di voucher formativi da spendere nelle scuole pubbliche o private assicurano di perfezionare il regime di concorrenza tra le istituzioni scolastiche e di trasformare definitivamente la natura pubblica della scuola in un servizio a domanda delle famiglie.

e. Alla scuola non si chiede di scommettere sull’uguaglianza e sull’integrazione, ma di riconoscere e assecondare la disuguaglianza e la separazione. In una società attraversata da grandi differenze economico-sociali e etnico-culturali come la nostra, il pluralismo della scuola viene barattato con la pluralità delle scuole, che devono garantire alle famiglie scelte educative coerenti con i loro modelli ideologici e le loro possibilità economiche. Non importa se il prezzo da pagare compromette l’unitarietà del sistema scolastico nazionale, le sue finalità costituzionali, la funzione pubblica dei docenti.

f. L’obbligo di istruzione a 16 anni viene furbescamente aggirato da un emendamento al D.L. 112 che, di fatto, ammette  la possibilità di espletarlo anche nei corsi triennali regionali di istruzione e formazione professionale. Di nuovo, dunque, ai quattordicenni è imposto di fare scelte precoci sul  loro futuro, proprio com’era previsto con il doppio canale morattiano. Anche in questo caso, in nome di una libertà di scelta assai poco veritiera, i più deboli per competenze e condizione socio-economica vengono destinati al cieco addestramento al lavoro e all’afasia civica. Con quali criteri poi avverrà il controllo della qualità della formazione professionale attualmente non è dato sapere.  

3. Formazione degli insegnanti e reclutamento

La drastica decisione di chiudere l’esperienza delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS), senza alcuna valutazione dei risultati e con la banale motivazione di frenare il precariato, è tra i più gravi provvedimenti ministeriali. Spia delle intenzioni restauratrici dell’attuale governo, la soppressione delle SISS prospetta ricadute negative di lungo periodo sulla qualità dell’insegnamento ma anche sul futuro delle facoltà umanistiche, i cui laureati finora hanno largamente trovato impiego nella scuola - e ora sono condannate a formare una nuova quota di disoccupati.
La SISS, frutto del ritrovato dialogo fra scuola e università, dal 1999 si è fatta carico della formazione professionale dei docenti, da qualificare sul piano disciplinare e da motivare al confronto con le emergenze formative contemporanee attraverso l’accesso a saperi educativi diversi e attraverso il tirocinio in classe. È perciò sconcertante che in contrasto con i quotidiani proclami sulla  necessità di migliorare l’offerta formativa della scuola anche con la riqualificazione continua dei docenti, lo stesso ministro abbia liquidato le scuole di specializzazione senza alcuna prima ancora di aver rielaborato una proposta alternativa, così che da un giorno all'altro sono state annullate le prospettive e le speranze di migliaia di giovani.
In realtà il ministro sembra più interessato alla formazione dei docenti in servizio, anzi di quelli meridionali cui imputa gli insuccessi della dispersione scolastica, i risultati deludenti degli studenti nei test europei, e altre inadempienze  culturali e professionali. Il sospetto è che l’abbaglio derivi da un inaccettabile pregiudizio settentrionalista e dall’intento sostanziale di individuare un facile capro espiatorio per continuare a ignorare le drammatiche carenze strutturali delle scuole di alcune regioni e le responsabilità politiche e socio-ambientali più ampie.
Anche nel caso di questo provvedimento contro le SISS, al ministro non è mancato un certo consenso sociale. Tuttavia, tagliare in questo modo le Scuole di Specializzazione solo per assecondare una nuova forma di reclutamento è un segnale del sostanziale disinteresse per una formazione complessa e articolata, destinata a preparare docenti riflessivi, competenti mediatori culturali e non semplici burocrati, è un grave errore. Settori entrambi centrali per la qualità dell’istruzione nell’epoca della competizione globalizzata, formazione e reclutamento meritano di essere progettati al di fuori di spinte ideologiche e soluzioni strumentali e andrebbero affrontati distintamente e senza strumentalizzazioni.

4. Quale progetto culturale?

Pur non tracciando alcun progetto complessivo di riforma, gli interventi ministeriali promettono un’efficienza organizzativa che non è garanzia di qualità dell’istruzione; spacciano per riequilibrio di spesa i tagli eterodiretti effettuati sulla pelle dei giovani, dei lavoratori (precari e di ruolo, formandi e formati), del futuro italiano; rispondono all’esigenza fin troppo disattesa del rinnovamento dei contenuti didattici con insensati ritorni all’ordine, che non lasciano intravvedere un progetto culturale aperto alla complessità del mondo, ai nuovi stili cognitivi dei giovani e alle loro intelligenze emotive, ma preludono alla più pesante promozione di una formazione utilitaristica.
In quanto insegnanti di Italiano non ci sfuggono, infatti, alcune affermazioni più attinenti alla nostra specificità disciplinare. È vero che, se si esclude il richiamo all’obbligatorietà dell’educazione civica - peraltro già vigente - non è ancora stato affrontato il nodo dei curricoli e dunque delle discipline; tuttavia più volte in questi mesi il ministro ha parlato di “insegnamenti utili”, includendo fra questi anche quello della lingua italiana, soprattutto in riferimento alla presenza sempre più massiccia nelle nostre scuole di ragazzi stranieri. Di nuovo è difficile non essere d’accordo. Allo stesso tempo, tuttavia, rimane impossibile scacciare il sospetto che, fra tutte le discipline umanistiche, si insista sul solo insegnamento linguistico proprio perché pragmaticamente fungibile. Che la preoccupazione del ministro sia quella di addestrare docenti e studenti ad affrontare con maggiore successo i test OCSE non è un mistero per nessuno. Né lo è il fatto che lo studio letterario, già negletto in precedenti ipotesi di riforma, sia considerato abbondantemente inutile a questo scopo. Dunque non ci facciamo illusioni su quale spazio gli verrà riservato nella formazione di base: la retorica della tradizione e dell’identità nazionale esige un tracciato persino troppo prevedibile. Ma a noi insegnanti, incalzati dalle tanto urgenti quanto inespresse domande di senso degli studenti, rimarrà comunque il compito di interrogare i grandi autori italiani e stranieri, classici e moderni, e di inventare strategie di resistenza e di innovazione. Direttamente sul campo, con o senza il consenso del ministro, in un rapporto di libertà e dialogo con le classi.

5. La nostra scuola

Per noi docenti dell’ADI-SD la scuola è ancora il luogo pubblico della conoscenza, della crescita democratica e della valorizzazione delle esperienze plurali. Il luogo costituzionalmente tutelato in cui la relazione educativa cresce attraverso il libero confronto tra le generazioni e le culture, deperisce invece con la minaccia e l’esclusione.
Per noi docenti di italiano rimane altresì irrinunciabile l’accesso di tutti gli studenti al patrimonio letterario occidentale, rivisitato in un’ottica planetaria. A queste condizioni, difatti, i valori dell’umanesimo saranno un’eredità viva e accogliente, in grado - come sostiene Todorov - di condurci nella odierna società complessa verso quella conoscenza umana che è di interesse comune. Su questo obiettivo ricerchiamo il confronto con i docenti della Scuola e dell’Università


Roma, 18.9.2008                                            il Direttivo nazionale











Postato il Lunedì, 22 settembre 2008 ore 00:05:00 CEST di Silvana La Porta
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