Nel dopoguerra ,quando Pietro Nenni venne eletto deputato, egli ebbe a dire che aveva sempre desiderato di arrivare alla “stanza dei bottoni” ma che quando vi era giunto si accorse che… i bottoni non c’erano. Forse perché gli italiani siamo un popolo di “sbullonati” cronici o probabilmente perché i “bottoni” non si trovano nelle varie cariche politiche ma altrove, in ben altri meandri e sotterranei economici del paese.
Così come è accaduto per la sanità, con la creazione delle ASL e poi delle ASP , anche il processo di aziendalizzazione dell’istruzione sembra irreversibile e apre scenari, senza essere complottisti o catastrofisti, di progressivo smantellamento dello Stato.
Noi, uomini moderni siamo abituati a considerare lo Stato come qualcosa di perenne, qualcosa che c’è sempre stato come la madre o il padre o la legge di gravità nell’Universo. In realtà, non occorre avere una conoscenza storica trascendentale per capire come lo Stato moderno nasce per ragioni congrue, di necessità politiche ed economiche. Nasce lo Stato unitario sotto forma di monarchia assoluta, il re, superanus o sovrano nel XIV secolo in Europa come necessità contingente ed imprescindibile di accentrare nelle proprie mani il controllo degli eserciti a differenza dei poteri feudali che detenevano eserciti locali ed autonomi. La funzione del controllo sulle forze armate è qualcosa di vitale per lo Stato (per la Repubblica così come per le monarchie assolute del passato ovviamente con le dovute differenze), infatti, lo storico F. Braudel individuò nell’atto di accentramento del potere militare nelle mani del sovrano assoluto l’atto costitutivo dello Stato moderno. E per Marx lo Stato avrebbe cessato di esistere quando si sarebbero eliminati i ceti sociali e la nuova forma di produzione non più basata sulla proprietà privata si sarebbe definitivamente affermata. Di fatto, tutti gli Stati indicano sia una supremazia di una forma di produzione economica sia la classe sociale che detiene il controllo e ne determina le modalità. Basti vedere che il nostro Codice Civile , che regola il rapporto tra i cittadini e che risale al 1942 , ha subìto delle modifiche, si, ma essenzialmente è uguale ad allora ed è una “esaltazione” della proprietà privata e delle sue tutele.
In realtà, il fenomeno della “globalizzazione” che abbiamo visto affermarsi negli ultimi decenni , da molti osannata quando si trattava di veder crollati e distrutti i vari muri di Berlino come simbolo della “libertà” riacquistata, ha rappresentato un fenomeno di specificazione e l’inizio di una trasformazione all’interno del sistema economico mondiale capitalista, ed usiamo questo termine con assoluta spassionatezza ed asetticità. Della globalizzazione noi comuni mortali vediamo gli effetti ( lo spostamento della fabbrica italiana in Thailandia o in Moldavia…) ma anche effetti positivi: la diffusione delle comunicazioni, internet etc. Le cause interne, sfuggono. Sfugge , soprattutto, il punto di articolazione tra questa e le varie politiche interne degli Stati; le politiche sulla sanità, sull’istruzione, sul welfare… i cittadini protestano, reclamano, se la prendono con la classe politica… quando la classe politica può, al massimo, ammortizzare i colpi ma non può fare nulla contro una sistematica evoluzione di una forma economica e produttiva mondiale.
La stessa autonomia data alle istituzioni scolastiche affermata con la legge 59/97 ma che segue l’applicazione del principio sancito dall’art. 117 della Costituzione è una conseguenza dovuta ad una diffusione di un liberismo economico transnazionale, che vede la trasformazione dell’economia di mercato in mercato globale e la nascita di una Banca Mondiale e di una finanza più legata ai meccanismi virtuali che a quelli reali. Ciò dimostra che la nostra Costituzione non è affatto quell’opera perfetta che molti credono: anzi, ha al suo interno molti punti deboli e critici non sappiamo se voluti o meno. Il grosso limite della nostra Costituzione è stato quello di averla concepita a caldo, dopo la fine del fascismo e della guerra. I padri costituenti non videro o non seppero intuire, infatti, che il vero pericolo non derivava da una reiterazione di forme dittatoriali come il fascismo. Il fascismo, infatti, era legato a una fase della produzione economica a cui diede risposta attraverso il protezionismo ma , in quanto tale, non tornerà più perché tale fase è ormai completamente superata. Ciò che si delineò, invece, già nel dopoguerra è una prospettiva economica che necessita sempre meno dell’apparato statale, anzi, che vede in quest’ultimo un grosso handicap per il suo sviluppo. Del resto, da più parti s’intende come il welfare, lo stato sociale, non è più attuabile perché comporta costi elevati che frenano la competitività economica. Invece, è vero proprio il contrario perché nessuno Stato può fare a meno di cercare la coesione sociale attraverso il mantenimento dei diritti civili essenziali per i suoi cittadini.
Del resto nella legge Bassanini sull’autonomia vi è affermata la sussidiarietà verticale tra lo Stato e le Regioni ma anche la sussidiarietà orizzontale, tra la scuola –azienda ed altre aziende private.
L’esautoramento degli organi collegiali nelle scuole equivale all’esautoramento del Parlamento e della sua funzione legislativa. Il ruolo centrale che viene dato ai dirigenti non è certo per valorizzarne la figura ma costituisce una “prova tecnica di trasmissione” della privatizzazione tout court.
Certo, l’autonomia di per sé può anche essere molto positiva. Il problema è che essa diventa il preambolo di un teorema di progressiva deresponsabilizzazione dello Stato e quindi, in buona sostanza, di una sua disintegrazione almeno nelle forme a cui siamo abituati a vivere da quando siamo nati. Se siamo cresciuti con l’idea che lo Stato è formato da tre fattori: territorio, sovranità ( di imporre le proprie leggi) e popolo potremmo essere costretti, in un certo senso, in futuro a cambiare gradualmente questo punto di vista ( ed è sempre gradualmente non per gentilezza ma per dare il tempo alla gente di metabolizzare i cambiamenti ed ammortizzarne così le reazioni…) . Come vediamo, in un mondo dominato dalla globalizzazione non ha più molto senso parlare di “suolo”… lo ius loci, presupposto nella nostra cultura della cittadinanza; nè appellarsi ad esso per mantenere il posto di lavoro: e finalmente appare evidente a cosa mirava il progetto di “flessibilità” sbandierato in tutte le salse e in tutti i contesti lavorativi e scolastici. Anche il concetto di popolo non è più legato allo ius sanguinis. Nel corso di un sessantennio abbiamo assistito in Europa ad un vorticoso passaggio dal nazionalismo più sfrenato ed assurdo ad una eliminazione pressocchè incomparabile di frontiere, dogane con un massiccio assorbimento di immigrati oltre le stesse capacità reali di impiego nei vari stati. Tutti e due sono sintomi di un movimento tellurico di meccanismi economici che non hanno ancora trovato un loro assetto definitivo.
Appare chiaro che anche le leggi dello Stato debbano adeguarsi a tali cambiamenti.
L’esito finale di tutto questo cambiamento potrebbe anche , non necessariamente , ma anche e non sappiamo sino a che punto, voler dire la fine di una supremazia e di una definizione nazionale, di quei tre elementi che abbiamo appena visto. Lo Stato, qualunque ne sia la forma, nasce ( e perisce) per le necessità economiche maggioritarie.
Le dittature del secolo passato ci hanno dimostrato come la forma di governo può cambiare a secondo delle esigenze economiche ( in cui la possibilità di scelta dei cittadini è veramente irrisoria e virtuale) ma dal “domani” si potrà assistere anche ad un vero e proprio capovolgimento delle forme statuali conosciute.
Non ci stancheremo mai di ripetere che avere consapevolezza di questi meccanismi è l’unico modo per fronteggiare i “disastri” che si abbattono su : scuola, università, sanità e via dicendo. La visione parcellizzata dei problemi dei vari settori può forse fornire una buona analisi dei fatti ma le soluzioni si trovano solo quando il quadro della situazione è chiaro e completo.
Tecla Squillaci
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