Il canto XXXIII del Paradiso rappresenta il coronamento ed il fulcro centrale di tutta la Divina Commedia; per questo motivo crediamo che debba iniziare, e non concludere lo studio dell’opera dantesca , come comunemente invece si fa a scuola, cosa che conferma il nostro convincimento che dentro le aule si faccia più didascalia che vero insegnamento, più reiterazione di luoghi comuni e nozioni che vera didattica.
Per capire Dante non bastano le guide didattiche né i commenti altrui. Non si può capirlo perseverando a pensare il pensiero degli altri perché per comprendere Dante bisogna rendersi simile a lui , per il principio di natura secondo cui il simile conosce il simile.
Occorre innalzarsi alle sue altezze, all’altezza della “luce” che getta sulla natura umana la sua poesia che è opera “luminosa” dall’etimologia arcaica di “divina” ( dal sanscrito div = luminoso) anche se Dante chiamò la sua opera semplicemente “Comedia”, ma mai aggettivo fu attribuito posteriormente ad un’opera in modo più idoneo. E non esiste nessuna “luce “ che abbia una qualche valenza se posta solo al di là dell’esperienza umana. La Divina Commedia non narra né descrive luoghi metafisici ma stati esistenziali dell’uomo; l’inferno della malvagità e della grossolanità materialista, il purgatorio, il limbo , della mediocrità e della meschinità in mezzo alle quali spesso si è costretti a vivere, il paradiso della certezza della conquista della vera natura, illuminata, dell’essere umano.
Leggere Dante è una boccata di aria pura tra i miasmi di chi sia dibatte nell’oscurità di una vita dove tutto appare contingente e fine a se stesso.
Ecco perché è bene iniziare… dalla fine lo studio dell’opera di Dante; perché è proprio in questo ultimo canto, canto del cigno, che si evidenziano tutte le premesse, le ragioni e le aspirazioni della sua grande opera. E’ la “visione” di Dio guadagnata attraverso il percorso simbolico dei vari stadi dell’essere che gradualmente lo elevano da primordiali bassezze; la pietra dirozzata che rivela in sé il brillante.
Il XXXIII canto si apre con la nota preghiera di S. Bernardo alla Vergine.
Quella di Bernardo è una figura complessa e da approfondire sotto molti aspetti. E’ indubbio il suo legame con i Templari e l’intera opera dantesca è intrisa di templarismo: in riferimenti simbolici e filosofici. Lo stesso emblema usato spesso da Dante, l’aquila, che per molti viene considerato il simbolo del guelfismo e dell’Impero, in realtà è uno dei simboli che si riferiscono a S. Giovanni Evangelista, il cui culto era molto caro ai Templari nonché ai loro diretti eredi, cioè i Liberi Muratori che ancora oggi, infatti, giurano sul Vangelo di Giovanni.. Ed anche il “bianco manto” dei beati della mistica rosa richiama il noto mantello dell’ordine templare.
La prima terzina del canto si apre con l’invocazione alla Vergine. Ma , nell’impianto tolemaico aristotelico della Commedia, non è solo la Madre di Gesù, secondo la lettura di primo livello del suo significato. E’, più che altro, la “vergine” matrice, la hylè aristotelica, il substrato di ogni cosa che fecondato dallo spirito divino porta alla luce un universo che in principio era solo in latenza.
La mistica rosa dei beati, del resto, ha due significati: l’assemblea dei beati ma anche l’animo umano. Nessuno può infatti sbocciare nel pieno compimento della vita se non attraversando tutti gli stadi dell’evoluzione umana: i petali della mistica rosa.
Nella sua invocazione Bernardo prega la Vergine, attraverso cui tutto è possibile, affinchè venga concessa a Dante la contemplazione di Dio. Appare persino pleonastico ribadire come l’impossibilità ad esprimere con parole umane tale visione sia perché l’ineffabile è inesprimibile, ma anche per la particolare e soggettiva esperienza che caratterizza ogni individuo nel suo percorso spirituale e che ben difficilmente può essere condiviso con altri per questa sua peculiare natura.
La religiosità che si evince dall’intero canto non è, inoltre, legata a parametri prettamente confessionali. Nonostante Dante adoperi anche simboli, personaggi, canoni tipici della Chiesa, in realtà la religiosità profusa nella sua opera è così imponente e vasta che non ammette limitazione alcuna. Si può forse paragonare al grande manifesto di una Natura contemplata ,ammirata, nella sua profondità e complessità, che ha un Principio Ordinatore ma che, al di là di questo non si esplica in un preciso canone religioso. Del resto, ben sappiamo come molti popoli dell’antichità vennero considerati politeisti in modo errato mentre per molti di loro sarebbe stato molto più esatto parlare di enoteismo, ovvero di una credenza di un unico principio ma considerato nelle sue varie articolazioni e aspetti ( es. il culto solare di Aton per gli egizi ma anche molta parte dell’induismo).
Rabindranath Tagore, in uno dei suoi magnifici versi espresse in modo encomiabile questo afflato : “voglio affondare e affondare fino a perdermi nell’abisso insondabile della notte profonda, che la terra dischiuda l’artiglio che ad essa mi lega e mi liberi dalla polvere che mi ostacola.”
La stessa comunione mistica con la natura e con la natura divina che è dentro l’uomo ma a volte gli è persino estranea, che troviamo anche in altri grandi poeti mistici come il persiano Rumì.
Il verso finale del canto, “l’amore che move il sole e le altre stelle” è nuovamente un riferimento giovanneo : “ Dio è Amore” ( Giovanni, 4, 8).
Vorremmo concludere ribadendo che in questo breve commento, che non ha velleità di essere esaustivo sull’argomento, non è stata consultata alcuna bibliografia; nella buona persuasione che il messaggio della poesia, della vera poesia, può essere trasmesso solo da “cuore a “cuore”.
Tecla Squillaci
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