
Si è deciso che non si dovesse più porre la questione dell'Inizio e del TUTTO, riducendo a razionale solo i discorsi che trattano del COME ed emarginando nell'irrazionale quelli che si chiedono il PERCHE'. Si è cercato di togliere ragionevolezza e senso ad ogni discorso che si ponesse al di fuori di ogni logica mostrativa.
Questa convinzione evidentemente non poteva e non può essere fatta propria dai teologi,perchè solo parlando di Dio possono tenere fede alle proprie responsabilità.Il modo come ne hanno parlato e come ne parlano è indice del tempo e dei problemi che si vivono.
Al tempo felice in cui filosofia e teologia coincidevano,si pensi per un momento a Platone e ad Aristotile,o ai tempi in cui la definizione dello status del divino era preliminare per affrontare altre questioni filosofiche,col Cristianesimo si è instaurato quello in cui di fatto si rompe l'antica solidarietà tra i due sapèri, perchè si viene a creare un rapporto gerarchico che col tempo ha condotto la filosofia a trascurare i problemi teologici, anche se la teologia ha continuato a fare i conti con il sapere della filosofia.
Di diversa natura era il divieto mosaico di nominare il nome di Dio invano. L'indicibilità del nome di Dio, proclamata nella Legge, è un divieto morale che vuole tenere nelle dovute distanze la finitezza dell'uomo e l'onnipotenza di Dio, la precarietà della creatura e l'immensità del Creatore. Non lacera il rapporto tra finito e infinito, ma vuole dargli il senso dell'incommensurabilità,del mistero. Fonda la" Religio" che può esserci tra uomo e Dio. E' sempre un Dio in relazione con l'uomo e la sua storia, che si esprime sia come misericordia ,sia come giustizia.
L'indicibilità del nome di Dio è una grandissima intuizione,che in altri contesti culturali e in altri momenti della storia delle religioni e della filosofia ha dato inizio a straordinarie e profonde riflessioni teologiche: Dio non può essere indicato e colto da un nome,come invece sono le cose. Con i nomi portiamo le cose alla nostra portata e Dio non è alla nostra portata ,alla portata delle nostre pretese.
Rispetto alla sintassi e alla semantica della filosofia greca del discorso su Dio, che nel neo-platonismo si esprime nelle forme elevate della teologia negativa, il parlare biblico su Dio è strano, impuro, e nonostante tutto, materiale. Non lo definisce, ma ce lo racconta nei suoi rapporti col popolo che si è scelto:ora amorevole,ora preoccupato,ora indignato.Si può dire che non possiamo conoscere la sua essenza,ma facciamo esperienza della sua "umanità", della sua presenza tra di noi. Nel linguaggio biblico vi è una spinta incessante all'immaginazione del divino,delle sue forme, delle sue qualità per tentare di superare il divieto di nominarlo e per renderlo prossimo nelle invocazioni o nelle lamentazioni.
La teologia negativa del neoplatonismo sviluppa a suo modo e con gli strumenti che gli sono propri il divieto di dire il nome di Dio, mantenendone intatto il significato misterioso di trascendenza. Non c'è discorso che possa rappresentare Dio come si può rappresentare il mondo. Le parole e i saperi con cui si ordina e si comunica il nostro il mondo sono inadeguati ,per costitutivi limiti invalicabili, a rappresentare ciò che va al di là del mondo e gli dà completezza. In questo problema,è inutile dirlo, si intrecciano le più grandi questioni che l'uomo si è posto e alle quali ha voluto dare una soluzione.
Platone affermava che l'Uno, il Bene, è al di là dell'essere,oltre le categorie dell'essere e del pensiero,che pretendono differenzazioni e delimitazioni; il principio c'è ma è al di la delle ipotesi sulla sua realtà. Per esprimere Dio non ci sono nè parole, nè intelligenze adeguate. Ineffabile, quindi. Il Principio si può pensare solo in forma negativa .Fonte di tutto,al di sopra di tutto.Fonte dell'essere al di sopra dell'essere. "Per tutto ciò che è superiore non si dà origine nel tempo"(Plotino)."Grazie all'intellegibile si apprenderà che l'Uno esiste, come l'Uno sia si apprende liberandosi dell'intellegibile"(Plotino)" Il principio lo ammetti,ma non puoi definirlo e se cerchi di capire come si spieghi il resto ti senti trascinato o tentato di pensare il Principio con le stesse categorie con le quali ragioni del molteplice."Quello di cui stiamo parlando, non cercarlo con occhi mortali, perchè così non è possibile vederlo" (Plotino).
Plotino è a un passo dalla teologia cristiana e viceversa la teologia cristiana dei primi secoli è stata vicina a Plotino. Plotino nelle Enneadi scrive pagine di alta spiritualità. C'è da chiedersi che ne sarebbe stato della teologia cristiana se questa nei primi 3 secoli dell'era moderna non si fosse misurata col pensiero greco. Ha dovuto fare, però, gli straordinari per mettere insieme l'immutabilità, l'indefettibilità del Dio dei filosofi con quello dell'Onnipotenza, dell'Infinito, del Dio che crea e si incarna, col Dio di Abramo e di Isacco.
Il contenuto con cui doveva fare i conti si proponeva come Verità rivelata; il punto di partenza della riflessione non poteva essere l'osservazione o la conoscenza della realtà;la problematizzazione del'esperienza, ma l'interpretazione delle parole dell'Antica e della Nuova Buona Novella, anzi della Parola (Logos) di Dio fatta carne. La nascente teologia cristiana doveva fare i conti con una tradizione religiosa, in cui era centrale la Scrittura. "Tutto è in essa" dicevano i grandi maestri ebraici e l'imperativo fondamentale è quello di interrogarla per ricavare il senso della storia e le indicazioni per orientare la vita del singolo e del popolo. "Voltala e rivoltala". Il testo è fondamento e orizzonte della verità e del significato degli eventi storici.
La teologia cristiana doveva mettere insieme una posizione eminentemente ermeneutica e un'inclinazione all'uso delle categorie della metafisica greca,per farsi comprendere nel mondo in cui voleva ambientarsi ed espandersi. L'iniziale teologia cristiana, pur utilizzando il codice mistico del neoplatonismo, ha parlato di Dio e soprattutto del Figlio per sciogliere il suo enigma,il suo mistero, attingendo alle antiche scritture e al medio-giudaismo, imprescindibile riserva semantico-linguistica per esprimere la propria fede (R. Penna). I primi cristiani leggono l'esperienza di Gesù come adempimento della scrittura, come compimento della scrittura. "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire,ma per dare compimento" (Matteo5,17); "E noi vi annunziamo la buona novella che la promessa fatta a i padri si è compiuta"(Atti 13,34).
C'è chi parla di Dio e del Figlio solo ebraicamente(Paolo), c'è chi incomincia a parlarne con parole elleniche (Giovanni). Il passaggio da compiere era straordinario e ardito: passare dalla fede di Gesù alla fede in Gesù, tenendo insieme continuità e radicale cambiamento. Il contrasto tra logos ellenico e messaggio evangelico era chiaro a Paolo, l'apostolo dei gentili, e non pare che si curasse di trovarne una conciliazione. Quale grande verità del cristianesimo avrebbe potuto essere formulata, esposta con parole greche? La creazione? L'incarnazione? La resurrezione?.
Forse si dovrebbe cominciare a ragionare per vedere se l'universalità del messaggio cristiano, oggi tempo di migrazioni popoli e di coesistenza multiculturale, possa essere affidato ancora all'intima connessione cristianesimo-ellenismo prodotta nei primi secoli della sua storia o non si debba piuttosto disincarnare la Buona Novella da questi specifici legami etno-culturali, per guadagnare con nuove parole un nuovo senso di universalità. Ammonisce Gadamer "ogni parola fa risuonare la totalità della lingua a cui appartiene, e fa apparire la totalità della visione del mondo che di tale lingua è la base". Il modo per dire la verità dovrebbe essere molteplice.
Che la ragione che si misura con la fede e cerca di svilupparne il senso non sia quella definita dal pensiero fisico-matematica non si discute, ma è anche discutibile che l'unica forma di ragione con cui si debba confrontare sia quella classica del logos ellenico. "Le idee cristiane sono state divulgate in modo poco cristiano"(Kierkegaard). Forse bisogna riguadagnare il profilo paradossale che aveva disegnato Paolo per la fede in Cristo, proclamando la sua differenza radicale con la sapienza pagana. La sapienza svuota e annulla la Croce.
Il Salvatore predicato da Paolo non è un rè vittorioso,nè un mediatore di sapienza gnostica. E' Gesù Crocefisso (G. Biguzzi). La fede è paradosso. "Paradosso che nessun ragionamento può dominare, perchè la fede comincia là appunto dove la ragione finisce "(Kierkegaard). La ragione che conosce i suoi limiti (confini) non afferma il nulla oltre di sè, ma si apre allla possibilità di un sapere che non sia pura metodologia di pensiero e della dimostrazione e tiene aperto lo spazio di una diversa comprensione dell'esperienza e della sua intrascendibile problematicità "Ci sono esperienze in cui si annuncia una verità che non può essere verificata con i mezzi metodici delle scienze" (H. Gadamer) e ancora "L'essenza della domanda è il porre e mantenere aperte delle possibilità"; "Ogni domandare è un'apertura".
Se all'inizio di tutto c'è la Verità rivelata, raccontata e trasmessa dalla Scrittura, la riflessione teologica innanzi tutto dovrebbe essere commentario, interpretazione e ricostruzione storica o comunque non dovrebbe farne a meno per non cadere nei rischi di una religione ridotta a filosofia. C'è bisogno di fedeltà: atteggiamento necessario di chi riceve e deve trasmettere,cosa che non comporta il letteralismo dei fondamentalisti, perchè l'approccio alla verità non può essere che interpretativo. L'interpretazione è credibile, però, solo se condotta in modo razionale ...
Definendo Gesù "logos" si fa teologia e la teologia impregnata di ellenismo inizia un percorso che renderà sempre più ampia la differenza tra cristianesimo ed ebraismo e forse anche la sua lontananza dalla Scrittura.
prof. Raimondo Giunta