Leggiamo su Il
Fatto Quotidiano l'articolo di Stefano Feltri, laurea in crisi:
studiare serve sempre meno, che riporta dati e analisi ricavate dal
libro della professoressa Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, che è
un saggio sulla libertà di non studiare e che fa riferimento a dati
statistici rilevati dal consorzio degli atenei, Almalaurea, su 400 mila
laureati. In maniera sintetica estrapoliamo alcuni dati significativi,
che ci servono come premessa per
parlare dei giovani Neet (non studiano, non lavorano e non si formano).
Premesso che secondo l'89% dei dirigenti aziendali responsabili delle
risorse umane i laureati italiani possiedono le competenze richieste,
allora perché fanno sempre più fatica a trovare lavoro e con stipendi
sempre più bassi? I dati di Almalaurea riguardano i giovani che hanno
completato gli studi, quindi non facciamo riferimento ai così detti
Neet.
Se ci riferiamo al tasso di disoccupazione: per le lauree triennali il
tasso passa dal 15% al 16 % mentre per la specialistica va dal 16% al
18%. Se osserviamo, invece, il tasso di occupazione: tra il 2007 e il
2009 scende di sei punti per le triennali e di sette punti percentuali
per le specialistiche e di 8,5 punti per quelle a ciclo unico. Vengono
formulate due spiegazioni a sostegno di quanto sopra evidenziato: la
prima, che i laureati di secondo livello possono scegliere tra lavoro e
dottorato, quelli triennali no, e in momenti di crisi è più facile
decidere di continuare a studiare in attesa di tempi migliori; la
seconda, che i triennali costano meno. La riprova sta nel fatto che con
la specialistica gli stipendi sono in discesa libera. Se per le
triennali si è avuto un calo del 5% , con le specialistiche siamo
arrivati al 10,5%.
Viene spontaneo chiedersi se valga ancora la pena di studiare: secondo
i dati Istat elaborati da Almalaurea, vale ancora la pena, perché nel
corso di tutta la vita i laureati hanno un tasso di occupazione del 77%
e i diplomati del 66%; inoltre lo stipendio, comunque sia, è migliore,
specie se si è disposti ad andare all'estero.
Almalaurea avverte: "Sarebbe un errore imperdonabile sottovalutare la
questione giovanile o tardare ad affrontarla in modo decisivo".
Adesso ci poniamo il quesito di come risolvere il preoccupante problema
dei Neet, dopo aver letto l'articolo, non studio, non lavoro e non "mi
formo", di Andrea Lavazza per La Rivista Il Mulino.Sinteticamente,
l'autore si pone il problema di come intervenire e con quali mezzi per
risolvere il problema dei Neet. Naturalmente non possiamo non
condividere che è un "enorme spreco sociale ed economico" avere un
record negativo, a livello europeo, del 21,2% (poco più di 2 milioni)
di giovani, fra i 15 e i 29 anni, non più inseriti in un percorso
scolastico-formativo e neanche impegnati in attività lavorativa. Come,
del resto, condividiamo che a fronte di scarsa o nulla contribuzione, i
Neet beneficiano di tutte le prestazioni e i servizi garantiti dalla
cittadinanza. Concordiamo anche con le analisi del Censis che vede,
proprio nella fascia di età fino ai 34 anni, la percentuale più alta di
quelli che ritengono la mancanza di un impiego dovuta alla
indisponibilità ad accettare mestieri faticosi e di basso prestigio
sociale. Ciò c'è di quotidiana esperienza, quando facciamo colloqui di
lavoro e vediamo rinunciare a lavori a tempo determinato e con
l'impegno dichiarato di assunzione a tempo indeterminato, allo scadere
del primo, solo perché lavori a turno o non adeguati al titolo di
studio e non perché ritenuti faticosi o particolarmente stressanti.
Premesso che nessuno può obbligare a far fare un tipo di lavoro anziché
un altro o di frequentare un corso piuttosto che un altro, l'autore
propone una serie di "incentivi negativi", una sorta di "paternalismo
soft", che non hanno il compito di "costringere" alcuno a fare (o non
fare) alcunché, ma tendono a dare un certo indirizzo ai giovani verso
un certo modo di comportarsi. Ad esempio suggerisce che chi non sia in
possesso di un "patentino" di "non Neet" deve pagare di più i
trasporti, maggiori costi sul bollo auto, le spiagge, le mostre ecc. a
gestione pubblica. E' indubbio che tali provvedimenti siano più di
ordine simbolico e indirizzati a richiamare l'attenzione al problema,
di sensibilizzare le famiglie, gli operatori scolastici e le
istituzioni. Soprattutto servono per creare al Neet quel senso di
disagio ad utilizzare le cose pubbliche, che più desidera utilizzare,
ma che non concorre a mantenerle come chi lavora.
A questo punto sorgono spontanee alcune domande: ma perché l'Italia ha
più Neet degli altri paesi? Perché i nostri giovani sono più restii a
lavorare o ad accettare lavori non conformi alle loro aspettative,
rispetto ai giovani degli altri paesi Ocse? Infine, sono utili, oltre
che costosi e difficili da gestire, gli "incentivi negativi" per chi,
cronicamente, non vuol lavorare?
Noi non mettiamo in dubbio che certe proposte, tipiche di un
"paternalismo soft", possano arrivare a creare delle sensibilità al
problema, ma ciò che ci lascia perplessi è: quali sensibilità? La
famiglia non è sensibile al fatto che il figlio non fa niente? E se la
famiglia non ha la forza di persuasione necessaria sul proprio figlio,
cosa sono quegli "spiccioli" in più da pagare per rimanere Neet? Le
Istituzioni sanno benissimo i costi che pagano e pagheranno per questa
assurda e inaccettabile situazione, ma, evidentemente, o hanno altre
priorità, o sono dannatamente incapaci di trovare delle soluzioni,
oppure, ciò è ritenuto il minor male al minor costo. La scuola, che ha
nel suo Dna la precarietà, può solo insegnare al giovane l'importanza
dell'istruzione, della formazione e del lavoro, proprio perché elementi
partecipanti e importanti del vivere sociale, ma niente può fare se ai
loro insegnamenti fa riscontro un mercato del lavoro che non riesce a
dare risposte alle richieste dei giovani.
Quello che dobbiamo chiederci se tutto ciò non sia concausa di tanti
elementi, che sono riusciti a creare un "allontanamento dalle
responsabilità sociali": una scuola che non da più speranze di riuscita
e dove i titoli di studio superiori hanno sostituito quelli inferiori
solo come posizione e non come reddito; un mercato del lavoro a tempo
indeterminato che si contrae sempre più su pochi eletti, relegando la
grande massa in lavori precari, intermittenti, poco pagati e dove sono
sempre più necessari lavoratori "usa e getta"; sempre più famiglie in
difficoltà ad arrivare a fine mese, che abbandonano la cura dei figli
per fare anche due lavori, pur di pagare le scadenze del mese, oppure
talmente impegnate a cercarsi un nuovo lavoro, che non hanno il tempo e
la forza di avere la sensibilità verso il figlio Neet; un capitale che
cerca costantemente strategie per la riduzione del valore-lavoro; una
politica assente, impreparata e succube delle pressioni del capitale,
che non riesce o non vuole rendersi sensibile al problema. Se non si
mette mano a tutti questi problemi o se non viene sancita e
concretamente valorizzata l'importanza sociale del lavoro, cosa possono
servire gli "incentivi negativi"? Per paradosso, ci dovremo abituare a
sentire sul treno o in piscina: "Che lavoro fai?", "Io, Neet!...e tu?"(di
idelbo da Leggo)
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