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Voce alla Scuola: Fare Scuola? Resistere

Redazione
Non tutti abbiamo studiato medicina o giurisprudenza e di fronte ai professionisti che le esercitano abbiamo un atteggiamento per lo più di umiltà quando non addirittura di deferenza, ma non c’è davvero nessuno che non sia stato a scuola. Chiunque si crede quindi autorizzato ad esprimere giudizi sulle sue criticità che certamente sono tante, e che però forse non sono così facili né da interpretare né da risolvere. Snaturata da logiche di mercato che a partire dagli anni ’90 ne hanno modificato scopi, funzione e linguaggio (utenti, manager, spendibilità, etc.), la Scuola marcia con fatica fra istanze progressiste e conservatrici, sconta il troppo lento ricambio della classe docente, nonché l’adeguamento ai paesi europei ‘geneticamente’ diversi dall’Italia, e a direttive che non ne rispettano affatto né l’impianto di studi (storicistico, critico-speculativo, classicista) né la specificità della grande tradizione di studi del nostro paese, che tuttavia non può più permettersi gli alti livelli di dispersione scolastica che si registrano e che deve necessariamente adeguarsi al presente. Non è qui possibile affrontare tutte le criticità della Scuola italiana, pertanto mi limiterò a qualche riflessione. Sono una persona speranzosa.

Per indole e per ruolo: non potrei essere un’insegnante, se non avessi fiducia nel cambiamento. Personalmente non sto lì a chiedermi se i risultati dell’Ocse-Pisa siano o no fededegni, non mi serve. L’abbassamento delle competenze di linguistiche di base, di scrittura, lettura e comprensione dei testi è da un triennio all’altro talmente evidente che persino io che detesto le interpretazioni catastrofiste, lo confermo recisamente. Non bisogna negare la realtà per risparmiarsi il ruolo degli adulti lagnosi, l’emergenza c’è ed è grave. Trovo tuttavia assai riduttivo e strumentale accusare la scuola di questo progressivo decadimento e so con certezza che invece di cercare una causa o un responsabile bisogna osservare il fenomeno assai più da lontano e valutare che un concorso di cause sia il nodo da sciogliere o comunque da affrontare, se davvero vogliamo capirci qualcosa.

Insegno in un liceo di Catania, dunque quello che dirò non è che da riferire alla mia minuscola esperienza: è una precisazione necessaria, nessuno di noi può pensare che la sua esperienza diventi il paradigma della Scuola tutta. Traccio dunque qui qualche ipotesi a costo di semplificare, so che esistono le eccezioni, ma quando si parla di grossi fenomeni, operare delle generalizzazioni serve a far risaltare le criticità. Affido pertanto al senso critico di ciascuno le distinzioni caso per caso e provo a essere un po’ pratica perché sono abituata a calare le teorie nella realtà: è una cosa che ho imparato a fare a scuola.
Uno dei problemi della scuola è il confronto con genitori sempre più arresi ai bisogni elementari di figli educati come idoli da placare, sacrificandogli le loro vite di adulti. Figli allevati nel convincimento che disporranno poi anche delle vite di tutti gli altri. Spesso questi genitori lamentano che i loro figli non leggono, eppure loro un libro non lo aprono mai perché ‘lavorano e non hanno tempo’.

E’ un’incoerenza educativa di cui i giovani si accorgono presto: fra scuola, compiti, sport, amici e amori loro non sono certo meno impegnati! Perché un ragazzo di 13 anni dovrebbe leggere un libro se anche i suoi genitori e perfino i suoi professori, non ne hanno il tempo? Sono genitori che non capiscono come mai i loro figli non fanno il sacrificio di studiare, pur non avendoli mai educati a guadagnarsi qualcosa. Credo che l’emergenza davvero grave del nostro tempo sia la povertà culturale delle famiglie italiane che negli ultimi trent’anni hanno ricevuto dalla politica un messaggio desolante secondo il quale la libertà consiste nella libertà di acquistare beni e servizi, nella libertà dei consumi. Gli studi non sono più percepiti come volano sociale ma come status symbol (‘mio figlio va al liceo classico’).

Non è un caso che al Sud le competenze di base siano ancor meno salde che al Nord. I figli di noi madri lavoratrici che abitiamo al Sud infatti crescono peggio, qui il problema dell’educazione infantile è ben più pronunciato: il nostro stato sociale non consente di crescere i bambini in comunità, in asili pubblici o in scuole dove si resta fino al pomeriggio e si pranza in mensa senza fare capricci e dovendosi attenere sin da subito a regole comunitarie e uguali per tutti. I nostri figli crescono fra nonni totalmente proni (che nella stragrande maggioranza dei casi li parcheggiano davanti alla tv, li straviziano, ne fanno il centro dell’universo), baby sitter pagate per soddisfare ogni loro richiesta e, in non pochi casi, genitori in difficoltà che cercano di accaparrarsi il consenso dei figli ad ogni costo.

Naturalmente non è questa la radice del deterioramento delle competenze linguistiche, ma il problema è solo la punta dell’iceberg di un fallimento educativo che alla scuola superiore diventa difficilmente risolvibile e che probabilmente riguarda invece in generale ogni insegnamento. I risultati degli Ocse-Pisa infatti, mettono in luce un disastro relativo ad alcune discipline, ma non sono certa che le cose andrebbero diversamente se venissero somministrati dei test per esempio di Geografia (disciplina fondamentale e tuttavia quasi scomparsa, almeno nella scuola superiore) o Storia.

Per restare sul concreto, mi limito ora a fare una riflessione specifica sulla formazione delle competenze di lingua italiana: quella della produzione scritta è una competenza lentissima da acquisire e necessita di un lavoro che inizia alle elementari, continua alla scuola media e al liceo, e che se viene interrotto o trascurato anche per un solo segmento di scuola, è molto difficilmente recuperabile. A qualunque grado dell’istruzione, l’insegnante deve allenare lo studente alla pratica quotidiana di lettura e di produzione della scrittura, il che significherebbe in teoria correggere ogni giorno gli elaborati di 30 allievi. Cosa che l’insegnante deve fare a casa, perché se lo fa in classe, nel frattempo posteggia gli altri 29. Correggere 30 compiti al giorno di non meno di un paio di pagine significa 60 pagine al giorno (da correggere. Scritte a penna. Non da leggere. Non da leggere su un testo a stampa, ok?). Vogliamo farlo se non ogni giorno, almeno 2 volte a settimana? Fanno 120 pagine alla settimana, l’equivalente di un romanzo.
L’insegnante è generalmente impegnato tutta la mattina e molti pomeriggi a far fronte alla macchina burocratica della scuola, a partecipare alle riunioni e a preparare le lezioni, a strutturare le verifiche, quando non addirittura a leggere un libro o un giornale per non inaridire.

Se l’insegnante ha 1 o massimo 2 classi (e così fanno più o meno 240 pagine da correggere a settimana), potrà adempiere alle correzioni con una certa regolarità, ma oggi i presidi-manager che prendono molte decisioni sulla base di logiche di ottimizzazione delle risorse anche a scapito della qualità dell'insegnamento, spalmano i docenti su più sezioni, fra biennio e triennio o li spostano su più classi come pedine, e in generale li impegnano in attività che magari contribuiscono all’immagine dell’istituto e inseguono il gradimento dei genitori, ma poco o nulla ricadono sugli allievi.

Diciamolo chiaramente: le competenze linguistiche si ottengono con un instancabile allenamento alla scrittura e però correggere sempre e regolarmente i compiti scritti di tre classi almeno due volte alla settimana non è molto facile. Il che però è un problema, perché per acquisire una buona competenza linguistica è davvero l'unica soluzione. (Aggiungo che ci sono allievi che arrivano al liceo con grosse carenze ortografiche che prevederebbero attività di recupero individuali.
Da svolgere quando? Come? A scuola, di pomeriggio? Con chi?).

Provo a spiegare ancora più concretamente cosa vuol dire che i presidi operano secondo logiche di mercato, sennò pare una cosa un po’ astratta e non lo è affatto: con rarissime eccezioni in cui guardano anche alla qualità dell’offerta formativa agli studenti, i presidi badano solo al fatto che il numero degli iscritti di una scuola sia a qualunque costo il più alto possibile, perché quanto più grande è l’istituzione tanto più sono ammessi a gestire grosse somme, finanziamenti europei, rapporti con le aziende e col territorio, quando non rapporti a vario titolo clientelari. Come si ottiene che questo numero degli iscritti sia sempre più alto possibile?
Semplicissimo. Non si boccia mai manco se l’alunno non si presenta in classe, si ricevono tutto il giorno i genitori in presidenza e ci si mostra totalmente proni a qualunque loro richiesta sui figli, soprattutto si accordano agli allievi tutte le richieste di assemblea, giornate di pace e libertà e difesa del clima, spettacoli e affini, cortei di protesta green. Tutte cose bellissime, importanti, necessarie alla formazione di un giovane, (certo che sì!), ma ormai sempre più spesso sostitutive delle attività scolastiche continuamente svolte a singhiozzo.

Il tempo dell’apprendimento continuamente interrotto può funzionare all’università, ma non a scuola. Azzardo un paragone semplificativo: come docente non posso pensare di insegnare le mie quattro conoscenze sulla disciplina senza mai partecipare ad una conferenza, ad un convegno, ad un corso di formazione specifico, tutte cose bellissime, importanti e necessarie. Ma voi ve lo immaginate se li frequentassi, sospendendo continuamente le lezioni a scuola e lasciando le classi scoperte?

Che dire poi dei ministri? Ci sono stati quelli che hanno smantellato il sistema dell’istruzione pubblica; quelli che hanno agito in nome di una scellerata visione della scuola come bacino occupazionale o come azienda da allineare alle logiche del mercato (quelle di cui sopra) che vede nella scuola un luogo di formazione non della persona ma del futuro lavoratore pronto a soddisfare le esigenze di mercato (sì, sempre quelle!); quelli che oggi istituzionalizzano almeno un giorno al mese di corteo, in un colpo solo deprivando i ragazzi del diritto di ribellarsi al sistema (che norma la loro ribellione e pertanto la vanifica); e i docenti di stare a fare tappezzeria a scuola per l’ennesima volta (sì, l’ennesima), procurandosi lo scherno del resto delle categorie di lavoratori.

Lo posso dire? Non serve nessuna riforma scolastica. Serve stare a scuola. Serve fare lezione, far ricadere all’interno della lezione tutte quelle attività formative che affrontano importantissimi temi dell’attualità e che di norma animano un’indigeribile quantità di progetti collaterali. Si può fare, non c’è sempre bisogno degli esperti! Sensibilizzare ai diritti umani e alle grandi questioni del presente può benissimo esser fatto nella lezione di Storia, Filosofia, Letteratura, Scienze, Greco (ma anche in tutte le altre, è ovvio!).

Deve essere fatto dentro la lezione, al di qua di un orizzonte di senso, all’interno un percorso didattico coerente. Serve credere nel cambiamento. Serve svincolarsi immediatamente dalle logiche della spendibilità immediata, del Mercato, della cultura come oggetto ornamentale. Serve ricordarsi che a scuola si forma la persona, non il lavoratore (che, con l'eccezione degli istituti professionalizzanti dove i due processi avvengono insieme, si forma solo dopo la scuola e mai prima). Serve fare scuola per emancipare socialmente le fasce meno provvedute che oggi mandano i loro figli al liceo, finalmente!! Sono giovani che non hanno ‘le spalle coperte’ e che se non si formano bene a scuola, non avranno una famiglia che per esempio gli potrà comprare il corso d’inglese per recuperare quello che a scuola non hanno imparato. Serve attrezzarli meglio possibile.

Serve opporre la nostra dignitosa laboriosità allo sfacelo generale. Serve fare scuola. Serve che i genitori considerino la scuola almeno alla stregua dello sport dei propri figli. Lì sì sanno far fare ai figli ciò che non sanno fargli fare a scuola! Nelle attività sportive infatti, stanno molto attenti a non fargli perdere mai le lezioni e pretendono da loro che partecipino con regolarità alle attività. Si insegna a i figli a seguire gli allenamenti con dedizione e costanza, a praticare lo sport con disciplina e spirito di sacrificio.
Insomma, se ne ha RISPETTO.

Certamente le responsabilità sono assai più ampie di queste e coinvolgono tutta la classe dirigente, docente, politica. Inoltre, le pochissime cose che ho detto bastano a dettare soluzioni, ma la decadenza degli studi che produce i risultati Ocse-Pisa non è da addebitare alla scuola o non solo. Per favore, smettiamola di guardare al problema delle competenze linguistiche senza ricollegarlo a tutto il resto. È solo un escamotage per colpire la Scuola (non cascàteci!).

È solo la punta di un iceberg di proporzioni enormi. Non è vero che la scuola non funziona o non solo, non funziona la nostra società di cui la Scuola, da sempre il settore più vivo e sensibile ai cambiamenti in atto, registra il fallimento. Soluzioni? Moltissime. Innumerevoli. Concrete. Urgenti. Personalmente non aspetterò certo quelle sistemiche, non dipendono da me, non ho questo potere. Ma posso come insegnante fare moltissimo, come genitore posso fare moltissimo e attivare direttamente ogni strumento di contrasto al fenomeno, rimboccarmi le maniche e resistere. Resistere. Fare scuola. Fare scuola. Fare scuola. Resistere.

Marta Aiello








Postato il Sabato, 07 dicembre 2019 ore 08:30:00 CET di Michelangelo Nicotra
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