Giovani: per il
loro problema di esistere, di occupare spazio e risorse e di non
trovare spazio e risorse per esistere, ci sono tre grandi soluzioni.
La prima è quella di immense guerre, che impiegano tutti i giovani
disponibili e ne rimandano indietro molti meno, non tutti integri, ma
quasi tutti accettati e sostenuti dalla comunità perché reduci. È
accaduto con le due guerre mondiali (1915 e
1939).
La seconda soluzione è quella del mai dimenticato e spesso
citato New Deal di Franklin Delano Roosevelt: un immenso programma di
debito e di spesa pubblica per costruire e far funzionare un’altra
America, visto che quella precedente si era inceppata e stava mietendo
vittime fra i senza lavoro (che erano quasi tutti). Roosevelt non ha
fatto rivoluzioni perché il Congresso, spaventato, approvava le sue
spese pazze. Ha voluto scuole e autostrade gratuite. E non solo non si
è buttato sulle famose, magiche privatizzazioni (tutto era privato e
tutto era fallito, prima di Roosevelt) ma ha creato il Teatro
Nazionale, i progetti pubblici per il cinema e la letteratura, ha
assunto i migliori fotografi e i migliori scrittori del suo tempo per
documentare quegli anni, dalla tragedia alla soluzione della tragedia.
Strano che in un tempo in cui si evoca subito e con frequenza il grande
fallimento del socialismo reale, nessuno vuole ricordare che viene
prima il fallimento (anch’esso catastrofico) del capitalismo reale.
Quel che viene dopo, la forza ritrovata che ha poi deciso i destini del
mondo, si deve a una mite ma ferma socialdemocrazia che non si è
lasciata spaventare o deviare dai furibondi attacchi, accuse,
insinuazioni (girava voce che Roosevelt fosse non solo comunista ma
anche ebreo).
Ho appena citato le scuole, ma tutto è scuola pubblica e sovvenzionata,
nell’America del New Deal, negli anni fra il 1929 (fallimento del
capitalismo) e il 1940 (rinascita di un’America che oggi chiamerebbero
socialista), dalle scuole elementari ai licei ai college. Dove grandi
università private già esistevano, i privati hanno dovuto dimostrare
che avrebbero sempre e comunque accettato il merito dei bravi,
attraverso sistemi di ammissione gratuita, pena la perdita del
riconoscimento dell’istituzione. Gli ospedali ricevevano fondi per la
ricerca (da cui nasce la lunga lista di premi Nobel del dopoguerra) a
condizione di non rifiutare mai i poveri, per non perdere il beneficio
dei fondi. Ma tutto era scuola, come i “progetti per il teatro”, i
“progetti per il cinema”, l’immensa diffusione dei “Community
Colleges”, istituzioni comunali o statali di università locali gratuite.
E intanto l’America di Roosevelt stabiliva che il diploma di scuola
media superiore sarebbe stato necessario per qualunque lavoro,
dall’operaio al poliziotto, ma includendo i soldati come requisito per
l’arruolamento. Se un giovane si presentava sprovvisto del titolo di
studio, il patto era che non avrebbe lasciato il servizio senza essere
stato mandato a scuola a prendere il diploma.
Quel Paese, in quegli anni, aveva visto nella formazione scolastica e
culturale dei giovani un tale accumulo di patrimonio per il progetto di
ricostruzione di un popolo e di uno Stato mandato in fallimento dal
privatismo, che aveva istituito il G.I. Bill, la più incredibile legge
che sia mai esistita: gli anni di vita militare venivano compensati con
l’università gratuita. Era un finanziamento non simmetrico (un anno per
un anno) ma che poteva proseguire, secondo il merito, fino al master,
al dottorato, alla specializzazione. Chi ha frequentato le Università e
la vita culturale degli Stati Uniti negli ultimi quattro decenni ha
incontrato una intera generazione di G.I. Bills (G.I., come è noto,
significa “dipendenti del governo”, “bill” è una legge) spesso fra i
grandi talenti più celebri al mondo, da Arthur Miller a Norman Mailer
(ma la lista è infinita), talenti che non sarebbero mai esistiti se
all’obbligo del diploma di scuola media superiore per tutti non si
fossero aggiunti una serie di percorsi gratuiti per i portatori di
merito.
Ma ho detto, all’inizio di questa pagina, che ci sono tre soluzioni per
rispondere al problema dei giovani che, in tutto il mondo industriale
avanzato sono senza scuola e senza lavoro, la generazione “né – né”. La
terza è la “soluzione Cameron”, il quarantenne, ma non così nuovo primo
ministro inglese: se i giovani sono bravi e promettenti, raddoppiategli
le tasse universitarie, in modo che un po’ di loro lascino perdere. Se
si rivoltano, bruciano supermercati e rubano cassonetti, la storia si
risolve con finti processi, mesi di prigione e poi non ne parliamo più
perché dobbiamo occuparci dei mercati.
Nessuno ricorderà Cameron se non come un buon indossatore di abiti blu
e un ottuso interprete (ma ha molti colleghi in Europa) della tragedia
sociale in cui vive.
D’altra parte nessuno ricorderà il cemento compatto di indifferenza che
il governo del Paese Italia ha opposto alla più grande, più lunga, più
motivata, più intelligente protesta giovanile in molti anni. Una classe
dirigente che ha il volto e la testa di Mariastella Gelmini non
promette niente a nessuno, meno che mai ai giovani. Ma pensate alla
occasione perduta dai politici che non sono Scajola o Sacconi o
Brunetta. Pensate alla cecità della grande stampa italiana, che rende
omaggio al cieco Cameron e al pugno duro della sua polizia. Quanta
polizia, quanto pugno di ferro ci vorrà tra poco per tenere fermi e
contenti i giovani indignati di una Europa governata dalle agenzie di
rating, da governi che competono nel tagliare, e il più virtuoso, in
questa gara di folli, è il governo che taglia di più?
Nella sigla della celebre serie Tv Boris, gli attori cantano una
canzoncina tremenda che descrive il momento in cui stiamo vivendo e il
mondo a cui si stanno affacciando i più giovani: “Quando il chirurgo
cieco comincia a operare, bisogna stare attenti, molto attenti, a
quello che può fare”. Questo è il momento.
(da Il Fatto Quotidiano di Furio Colombo)
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