Si
avvicinava il 17 e, essendo per la scuola giorno di vacanza, si stava
per
consumare una delle dimostrazioni di autoreferenzialità (in gergo
calcistico:
autogol) della scuola. Un giorno in cui si è 'pieni' di una storia, si
riduceva, me connivente, a un giorno di 'vuoto' (vacatio, vacanza); un
giorno
di appartenenza a un giorno di inappartenenza. Solo chi appartiene a
qualcuno
si appartiene e desidera che qualcuno gli appartenga. Questa è
l’origine di
ogni genuina
pietas(la cura
verso coloro ai quali apparteniamo): chi non
cura la sua appartenenza diventa 'spietato' (senza pietà) verso i suoi
stessi
cari. Chi non appartiene a una famiglia, a una città, a una patria non
si
appartiene e non riesce ad accogliere, perché non sa cosa dare. Può
solo
prendere e pretendere e, se non ci riesce, recrimina o fugge.
Ma
Edoardo, uno dei miei alunni, mi ha risvegliato, come accade quando mi
adagio
su soluzioni comode: «Prof per i 150 anni dovremmo fare una lezione
speciale».
Farò lezione sul testo di Petrarca «Italia mia, benché il parlar sia
indarno».
Il poeta – già allora e più di oggi – la scorge vulnerata nel suo «bel
corpo» e
chiede a Dio: «che la pietà che Ti condusse in terra / Ti volga al Tuo
diletto
almo paese». Petrarca chiede rinnovata pietà e i miei ragazzi negli
scritti che
ho chiesto loro per l’occasione parlano di «cura». Proprio il dramma
dell’in-appartenenza spinge dei liceali a parlare dell’Italia in modo
che non
mi aspettavo: il coraggio di rimanere anziché fuggire, per prendersi
«cura» di
quel «bel corpo». La «pietà» invocata da Petrarca e la «cura» indicata
dai
ragazzi sono la stessa cosa. Ancora una volta passato e futuro si
stringono e
mi costringono a rinascere, anche in mezzo al disfattismo dilagante.
Per poter
essere 'originali' bisogna avere delle origini: solo chi appartiene può
appartenersi e scoprirsi. Alcuni dei miei ragazzi sentono il dramma
dell’in-appartenenza e invece di starsene a guardare, paralizzati dalla
malinconia
stanca degli adulti, propongono la terapia: prendersi cura dell’Italia.
Non
vogliono esserne figli disamorati, ma padri innamorati.
Ne
avranno la possibilità solo attraverso il lavoro, teso a costruire non
solo il
bene privato, ma soprattutto il bene comune: quel lavoro che è servizio
e che,
da professore, vivo, provando a prendermi cura dei ragazzi, il mio Bel
Paese in
carne e ossa. Mi è così tornato in mente che la letteratura che insegno
comincia con il patrono (padre e protettore), di questa nostra terra:
Francesco. Un vero sognatore, innamorato di Dio, della realtà e degli
uomini.
Di padre umbro e madre straniera, il santo e poeta inventa il primo
testo che
accomuna tutti gli italiani: un canto di lode che, attraverso il sole,
le
stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra, gli uomini e persino la
morte,
resi fratelli e sorelle, si leva fino al Padre di tutta la realtà. Lo
compone
nella sua lingua madre, la lingua che la sua terra gli ha insegnato, un
volgare
di marca umbra purificato da eccessivi dialettalismi, capace di
raggiungere
ogni tipo di pubblico. Un pubblico che ancora non si sapeva popolo, ma
che quel
canto in versi ritmati, impreziosito da moduli retorici letterari e da
elementi
linguistici latineggianti, strinse tutti al calore dello sguardo di un
unico
Padre. Così Francesco inventava l’Italia.
A
questo giovane intrepido cavaliere e giullare innamorato, attraverso il
suo
Cantico, chiederò il 17 il dono della pietà/cura di un Paese che lui ha
sognato. Solo se, come Francesco, avremo il coraggio di dimenticarci
del nostro
orticello e di rimettere al centro della nostra esistenza il bene
comune,
questo Paese potrà ritrovare se stesso: le sue origini e la sua
originalità,
senza accontentarsi di miti di fondazione che suscitano comode e
passeggere
emozioni, ma non faticose, quotidiane, esaltanti trasformazioni.
Di
Alessandro D’Avenia
(Avvenire, 16 marzo 2011)