Il presidente
del Consiglio Monti invita a metter mano al miglioramento del capitale
umano italiano, poiché il Paese è in coda per il numero di diplomati,
dopo l’Estonia, la Polonia, il Cile e la Slovenia. Occorre chiedersi se
questi parametri misurino un’effettiva inferiorità formativa. Pensando
alla tradizione dell’Italia sul piano culturale, scientifico, tecnico e
artistico, a quel che si «respira» nel Paese, se non altro per la
presenza della massima concentrazione di beni culturali del mondo,
pensando alle straordinarie capacità creative in tanti campi, c’è da
dubitarne, per quanto evidente sia la crisi del sistema
dell’istruzione.
Un corretto procedere scientifico imporrebbe piuttosto di spiegare il
paradosso: quando un risultato statistico è in stridente contrasto con
l’evidenza occorre verificare se non si è capito qualcosa o se è
l’analisi che non funziona. Tanto più
se il paradosso investe altri Paesi: incredibilmente l’Estonia è al
vertice mondiale, la Francia fa una cattiva figura (sotto la media
Ocse), la Spagna è al disastro, Israele è battuto dalla Slovenia.
Viviamo nella mitologia dei numeri. Gli ingegneri francesi, primi a
introdurre la statistica nelle scienze sociali e nel management,
ammonivano che con i numeri si dimostra tutto e il contrario di tutto.
Questa saggezza si è persa e siamo all’opposto della tesi del grande
matematico Poincaré, secondo cui la misurazione delle qualità «morali»
è lo scandalo della scienza: si crede ciecamente a qualsiasi tabella.
Occorrerebbe invece chiedersi cosa vi sia dietro quei titoli di studio
messi a confronto, e magari inconfrontabili: persino i numeri possono
essere incommensurabili tra loro, figuriamoci i contenuti della
formazione. Un esempio per tutti. La
Finlandia è comunemente indicata come un modello dell’istruzione, prima
nelle classifiche Ocse.
È indubbio che le immagini delle scuole finlandesi, linde e lucenti
rispetto alle aule decrepite delle nostre scuole, rafforzano tale
convinzione. Ma andando a fondo si
scopre che non è oro quel che luccica e che molte voci in quel Paese
denunciano il grave declino della formazione matematica compromessa da
un piatto pragmatismo.
Come ha scritto uno dei massimi matematici finlandesi, «in Finlandia
sappiamo che non avremmo avuto alcun successo nelle classifiche
Ocse-Pisa se i test avessero riguardato la comprensione dei concetti o
delle relazioni matematiche». Non è
difficile dimostrare che uno studente italiano, malgrado tutto, ha una
preparazione matematica superiore e assai più profonda di quella di uno
studente finlandese, sebbene figuri molto più in basso nelle
statistiche internazionali. Questo chi conosce la scuola lo
capisce bene. Gli «esperti» fanno orecchie da mercante e si attengono
ai dati numerici come se fossero le tavole del Sinai. Prima di dire che il «capitale umano»
estone è superiore a quello italiano occorrerebbe esaminare a fondo il
livello di alfabetizzazione, di formazione letteraria, matematica e
scientifica sulla base dei contenuti della formazione, invece di
giustapporre dati il cui confronto può essere privo di senso.
Il vero problema è l’obbiettivo verso cui si mira. Se com’è usuale si
considera la formazione culturale una perdita di tempo, se si ritiene che la scuola debba soltanto
formare forza-lavoro per le aziende, se si crede che la scienza non
serva alla tecnologia e che tutto ciò che è «umanistico» è chiacchiera
inutile, allora l’Italia è malmessa. Se pensiamo tornando
all’esempio finlandese che non serva sapere cos’è una frazione e che la
matematica debba essere ridotta a un insieme di ricette di calcolo,
allora siamo malmessi. Ma una simile
visione è sbagliata e miope. Se Steve Jobs fosse stato soltanto
un abile tecnico informatico non avrebbe conseguito tanti successi. Per salvare l’industria musicale non
bastava la tecnica Mp3 o l’invenzione dell’iPod: ci voleva un’idea
rivoluzionaria della diffusione e gestione dell’informazione che è
frutto di una visione culturale. Jobs stesso ha ricordato il
ruolo che ebbe per lui lo studio
della calligrafia, la scoperta di Leon Battista Alberti e del
Rinascimento italiano e quanto questi riferimenti culturali l’abbiano
ispirato. È lungimirante considerare questi «nostri» riferimenti
culturali e lo studio della storia dell’arte l’ingombro che ci preclude
il progresso?
Quindi, a seconda del criterio interpretativo, l’Italia è un fanalino
di coda, oppure un Paese che, malgrado i suoi guai, precipita più
lentamente di altri nel declino dell’Europa. Perché questo è il nodo. Come non vedere il
drammatico declino culturale e dei sistemi dell’istruzione del
continente? Non si tratta di riproporre la critica per aver
costruito l’Europa sull’economia. Si poteva ben iniziare dalla moneta,
con la ferma consapevolezza però che il primo compito era por mano a un
processo di integrazione culturale e della formazione reso difficile
dall’esistenza di tante lingue e culture diverse. L’obbiettivo come diceva una decina di anni
or sono un intellettuale francese doveva essere la formazione di
giovani dotati della conoscenza di non meno di tre delle lingue
principali del continente e della capacità di assimilarne le culture
portanti, di amarle come la propria. Invece non abbiamo visto
che il simbolo del fallimento era tra le nostre mani: in quelle
carte-moneta per le quali non si era trovato il consenso necessario a
stamparvi le grandi figure della civiltà europea, e neppure i monumenti
principali, bensì solo forme stilizzate. Era un fallimento provocato
dal politicamente corretto che ha respinto il fatto ovvio che non tutte
le culture e le lingue europee hanno lo stesso peso. Ma se non è stato
possibile battere in breccia queste diffidenze e queste chiusure, su
che basi costruire l’amore per la civiltà e la cultura dell’altro?
Ci si è invece rifugiati nel minimo comun denominatore, rappresentato
dalle famose otto «competenze chiave» di Lisbona volte al ristretto
scopo di facilitare lo scambio di forza-lavoro. È un elenco di abilità
minime in termini di comunicazione linguistica, di capacità di calcolo
e tecnologica, «competenze» sociali, civiche, imprenditoriali,
digitali. È una miscela di formalismo e di economicismo che prefigura
sistemi dell’istruzione in cui non c’è più posto per le culture del
continente. Di che stupirsi se
progetti che dovevano essere il motore della conoscenza culturale
reciproca, come Erasmus, si sono ridotti a viaggi-vacanze in cui
neppure ci si sforza di apprendere la lingua dell’altro e che offrono
ai docenti di ogni Paese il mezzo gaudio di un mal comune? Di che
stupirsi se le chiusure nazionalistiche sono più forti di prima?
Questi sono i veri problemi del continente, così strettamente connessi
alla crisi economica che lo mette in affanno. Per il resto, sarebbe
meglio evitare di trarre conclusioni affrettate da statistiche che
rischiano di farci inseguire lustrini illusori i quali potrebbero
indicare soltanto la via per un declino più veloce. (di Giorgio
Israel da Il Messaggero)
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