De ignorantia viri magno usu tractandae rei publicae
Data: Sabato, 17 settembre 2016 ore 08:00:00 CEST
Argomento: Opinioni


Le recenti sortite del vicepresidente della Camera, Di Maio, non fanno altro che ribadire l'incolmabile distanza esistente tra i politici e la cultura. Sortite comiche e indecenti sul piano logico grammaticale, storico e politico. Siamo in presenza di un analfabetismo autentico, compiaciuto ed esibito con la leggerezza che solo gli ignoranti veri possiedono: vale a dire coloro che non sanno - perché mai se lo chiedono, non sentendone alcun bisogno - di non sapere. Come non si possa, in tal modo, provare imbarazzo per se stessi, o pensare di non mettere in imbarazzo l'uditorio e finanche i propri elettori è mistero che può spiegarsi solo con la scarsa attitudine al ragionamento del vicepresidente della Camera.

Già, quel non saper ragionare che lo sciasciano professor Franzò rimproverava ad un suo ex alunno diventato magistrato e che si ostinava ancora a considerare l'italiano poco importante, se non del tutto superfluo, ai fini della carriera. "L'italiano non è l'italiano: è il ragionare", gli rispondeva il professor Franzò, e aggiungeva con una punta di sacrosanto sarcasmo: "Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto". Questa la realtà.

Il ragionare, dunque, che si apprende dall'italiano, il quale permette di leggere e di capire, di comunicare. E quindi di conoscere la storia, di analizzare, associare e dissociare gli eventi, e perciò di servirsi della storia per comprendere anche il proprio tempo, e per fornire sul proprio tempo giudizi equilibrati, non manichei, il meno possibile infetti da quella esaltazione demagogica e sloganistica che, in ogni faccenda seria, politica inclusa, sempre svuota di peso l'intelligenza. E' del tutto evidente che l'Italia abbia bisogno di una rivoluzione culturale, almeno quanto è evidente che di tutto la politica senta il bisogno tranne che della cultura.

Di Maio ne è l'esempio lampante, in ottima e affollata compagnia peraltro, come constatiamo ogni giorno ad ogni latitudine politica. Ed allora mi chiedo come un italiano non possa non provare un moto di stizza per l'arroganza con cui i politici di questa stoffa sempre più guardano al sapere ed alla cultura, per la sfrontatezza con cui maneggiano le conquiste intellettuali e morali della conoscenza, della memoria; per il disprezzo insomma che mostrano verso il solo patrimonio che vale la pena di salvaguardare, perché i giovani ci guadagnino passione, identità, valori culturali, civili, esistenziali, e grazie al quale gli stessi costruiscano il loro faticoso presente ed un futuro ancora così incerto.

O forse è giunto il tempo, la mefitica e irreversibile età del non-oro, del dis-decoro, in cui ci si può finalmente rivolgere alla conoscenza non con il rispetto e la deferenza che la ragione invoca, non con la superficialità e con la spocchia dei satrapetti acclamati a tracciare per la nazione strategie di vacuo e bieco potere; se ogni potere senza cultura può definirsi, non senza ragioni, vacuo e bieco. E mi chiedo, in questo panorama desolante: sono queste le premesse politiche oggi esistenti in Italia per una rivoluzione culturale? questi i campioni, queste le coscienze, queste le intelligenze critiche che possono provvedere a valorizzare cultura, scuola, università, ricerca, solidarietà?

Veda il lettore di rispondersi come meglio può; io, seppur sideralmente lontano dai guaiti politici, ma tutt'altro che indifferente all'etica di una civile convivenza, rimango del parere che persino per un politico la dignità possa avere ancora una qualche importanza, purché gliela voglia conferire; e che pertanto sempre ci sia il tempo e l'occasione - tra un giro di valzer e l'altro di questa farsa al ribasso che tocca sorbirci - per presentare o perlomeno farsi offrire una dignitosissima lettera di dimissioni, di maggioranza o di minoranza che siano.

Magari con la dicitura: "per sopravvenuti e irrespingibili motivi culturali". Sarebbe forse un paese migliore.

Filippo Martorana





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