Le recenti sortite del
vicepresidente della Camera, Di Maio, non fanno altro che ribadire
l'incolmabile distanza esistente tra i politici e la cultura. Sortite
comiche e indecenti sul piano logico grammaticale, storico e politico.
Siamo in presenza di un analfabetismo autentico, compiaciuto ed esibito
con la leggerezza che solo gli ignoranti veri possiedono: vale a dire
coloro che non sanno - perché mai se lo chiedono, non sentendone alcun
bisogno - di non sapere. Come non si possa, in tal modo, provare
imbarazzo per se stessi, o pensare di non mettere in imbarazzo
l'uditorio e finanche i propri elettori è mistero che può spiegarsi
solo con la scarsa attitudine al ragionamento del vicepresidente della
Camera.
Già, quel non saper ragionare che lo sciasciano professor Franzò
rimproverava ad un suo ex alunno diventato magistrato e che si ostinava
ancora a considerare l'italiano poco importante, se non del tutto
superfluo, ai fini della carriera. "L'italiano non è l'italiano: è il
ragionare", gli rispondeva il professor Franzò, e aggiungeva con una
punta di sacrosanto sarcasmo: "Con meno italiano, lei sarebbe forse
ancora più in alto". Questa la realtà.
Il ragionare, dunque, che si apprende dall'italiano, il quale permette
di leggere e di capire, di comunicare. E quindi di conoscere la storia,
di analizzare, associare e dissociare gli eventi, e perciò di servirsi
della storia per comprendere anche il proprio tempo, e per fornire sul
proprio tempo giudizi equilibrati, non manichei, il meno possibile
infetti da quella esaltazione demagogica e sloganistica che, in ogni
faccenda seria, politica inclusa, sempre svuota di peso l'intelligenza.
E' del tutto evidente che l'Italia abbia bisogno di una rivoluzione
culturale, almeno quanto è evidente che di tutto la politica senta il
bisogno tranne che della cultura.
Di Maio ne è l'esempio lampante, in ottima e affollata compagnia
peraltro, come constatiamo ogni giorno ad ogni latitudine politica. Ed
allora mi chiedo come un italiano non possa non provare un moto di
stizza per l'arroganza con cui i politici di questa stoffa sempre più
guardano al sapere ed alla cultura, per la sfrontatezza con cui
maneggiano le conquiste intellettuali e morali della conoscenza, della
memoria; per il disprezzo insomma che mostrano verso il solo patrimonio
che vale la pena di salvaguardare, perché i giovani ci guadagnino
passione, identità, valori culturali, civili, esistenziali, e grazie al
quale gli stessi costruiscano il loro faticoso presente ed un futuro
ancora così incerto.
O forse è giunto il tempo, la mefitica e irreversibile età del non-oro,
del dis-decoro, in cui ci si può finalmente rivolgere alla conoscenza
non con il rispetto e la deferenza che la ragione invoca, non con la
superficialità e con la spocchia dei satrapetti acclamati a tracciare
per la nazione strategie di vacuo e bieco potere; se ogni potere senza
cultura può definirsi, non senza ragioni, vacuo e bieco. E mi chiedo,
in questo panorama desolante: sono queste le premesse politiche oggi
esistenti in Italia per una rivoluzione culturale? questi i campioni,
queste le coscienze, queste le intelligenze critiche che possono
provvedere a valorizzare cultura, scuola, università, ricerca,
solidarietà?
Veda il lettore di rispondersi come meglio può; io, seppur sideralmente
lontano dai guaiti politici, ma tutt'altro che indifferente all'etica
di una civile convivenza, rimango del parere che persino per un
politico la dignità possa avere ancora una qualche importanza, purché
gliela voglia conferire; e che pertanto sempre ci sia il tempo e
l'occasione - tra un giro di valzer e l'altro di questa farsa al
ribasso che tocca sorbirci - per presentare o perlomeno farsi offrire
una dignitosissima lettera di dimissioni, di maggioranza o di minoranza
che siano.
Magari con la dicitura: "per sopravvenuti e irrespingibili motivi
culturali". Sarebbe forse un paese migliore.
Filippo Martorana