Quasimodo, un nostro classico!
Data: Domenica, 08 dicembre 2019 ore 08:00:00 CET Argomento: Redazione
Lessi Quasimodo per
la prima volta quand'ero al IV Ginnasio; non a scuola lo lessi,
s'intende, ché, allora, non si concepivano simili letture divaganti dai
nostri un po' stagionati e pigri programmi scolastici ministeriali; ma
nella vetusta e polverosa biblioteca comunale del mio paese, per mio
conto e mio divagamento, là in un cantuccio dell'unica sala di lettura,
vicino alla stufa, d'inverno, alla finestra aperta sul cortile fiorito,
d'estate. Sedimentati negli anni del Liceo, pochi versi rimasero, in
verità, chiari e accessibili alla mia mente; il resto lo dimenticai
come cosa oscura e sibillina. Oscurità, credo, accentuata in me, fra
l'altro, da una gran confusione di lettura sincronica di "Tutte le
poesie", che, mentre non mi offriva nessun punto certo di partenza e di
orientamento, confondendomi il centro con la periferia (se mai poi vi
fossero di codeste differenze nelle poesie di Quasimodo, e non fossero,
invece, centro e periferia, che poli dialettici di un unico continuum
poetico), tanto meno poteva darmi - simile metodo di lettura - la
possibilità di cogliere lo spessore delle stratificazioni storiche di
quella poesia, il suo processo di svolgimento per linee interne, oltre
che esterne, di intuire l'intelligenza profonda della parola
quasimodiana che cresceva sopra se stessa, divenendo sempre più
amaramente saggia e divinamente presaga attraverso un continuo
tormentato processo di autoriconoscimento, di autoanalisi, di
autocritica, tanto da sembrare, alla fine, il suo lo svolgimento di un
processo contraddittorio.
Rileggo Quasimodo dopo che è passato molto tempo (e fatte altre letture
), e provo un'emozione nuova, ma che so antica, diversa ma familiare; e
risento il vibrare di un canto obliato ma noto, ma più schiarito, ma
più vero alla mia esperienza di oggi tanto, che a decifrarlo mi pare,
ora, che le sue oscurità, di allora,non esistono, né mai erano, forse,
esistite; e che i simboli sibillini e misteriosi del poeta; i suoi miti
dolorosi e cari, le sue essenziali immagini e disperanti, e i suoi
trasalimenti e il "miracolo" della sua "parola" trasfiguratrice ( -
tutto quello che intesi poi chiamare, dai critici, senso pascaliano
della vita, sentimento orfico-pitagorico della natura, tendenza mistica
e visione tragica del tempo individuale e cosmico; sofferta classicità
romantica, e così via ) non erano che cose incomprensibili solo a me
per difetto di età e di cultura, a me giovane troppo ignaro e inesperto
dell'aspra pena del vivere e dei mali del mondo; troppo ignaro della
poesia vera che è canto "religioso" disperato di speranza, certezza di
cose incerte, visione di cose invisibili, dolore di cose che si
ignorano: Fitta di bianche e di nere radici / di lievito odora e
lombrichi, / tagliata dall'acqua la terra./ Dolore di cose che ignoro /
mi nasce: non basta una morte / se ecco più volte mi pesa / con l'erba,
sul cuore, una zolla. (Dolore di cose che ignoro).
E gli esempi potrebbero addursi senza soluzione di continuità : da
"Acque e terre" a "Oboe sommerso"; da "Erato e Apòllion" a " Nuove
poesie"; fino ad arrivare all'ultimo Quasimodo di "Dare e avere", dove
- è stato detto - intenso ma disteso prevale un drammatico rapporto del
poeta con la morte che rappresenta l'altro polo, il negativo,del suo
immenso amore per la vita. ( G. Finzi,da Introduzione a Tutte le poesie
di Quasimodo. Ed. Mondadori)
A pensarci, dunque, c'erano almeno due ordini di difficoltà per
l'adolescente lettore sprovveduto qual ero io:
1) oggettive ( di contenuti e di forme particolari inerenti a quella
poesia, di tecnica espressiva, di poetica della parola, di storia e di
cultura, - e quella di Quasimodo attraversava la realtà e l'immaginario
di due guerre ;
2) soggettive, direi esistenziali, che mi avevano impedito di capire
fino in fondo il "continuum" della verità umana e storica della poesia
del Nostro, il senso simbolico e allusivo della sua parola presaga.
Presagire - ha scritto Gombrich - è più profondo che pensare. Quasimodo
era uno che aveva presagito il suo destino, individuale e cosmico,
nella /con la sua poesia. Stavano qui, le motivazioni più profonde,
psicologiche, oltre che etico-storiche, del suo ermetismo, i cui esiti
non potevano che essere lirici ed epici nello steso tempo; esiti di
poetica della memoria individuale e soggettiva, ma anche di poetica di
impegno storico e civile, politico e sociale ( "E come potevamo noi
cantare/ con il piede straniero sopra il cuore"). Esiti luminosamente
oscuri e presaghi di "fughe" e di ritorni alla vita proprio di chi sa
che, giorno dopo giorno, "aspro è l'esilio" e "l'armonia si muta / in
ansia precoce di morire "e che "ogni amore è schermo alla tristezza"
(Vento a Tìndari ).
L'ermetismo del poeta modicano - capii molto tempo dopo - non era
semplice categoria concettuale, né compiaciuta scelta di oscurità
formale, fine a se stessa, ma forza e resistenza morale, estremo
"pudore di scrivere versi" e massimo coraggioso sforzo di ricerca (Tu
ridi che per sillabe mi scarno) non solo stilistica ma spirituale,
intesa sempre a confrontare la propria parola con quella degli altri,
il proprio io con il mondo, il contingente con l'Assoluto, la verità
con la menzogna, la vita con la morte, l'amore con l'odio, la storia
con la metastoria " ... / Ma noi , qui, /chiusi in ascolto nell'antica
voce,/cerchiamo un segno che superi la vita, / l'oscuro sortilegio
della terra,/ dove anche fra le tombe di macerie/l'erba maligna solleva
il suo fiore". ( 19 gennaio 1944).
Nuccio Palumbo
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