La mia prof d’Italiano, Sylvia Plath e le poetesse suicide
Data: Domenica, 17 novembre 2013 ore 08:00:00 CET Argomento: Redazione
Ricordo ancora,
con nitida nostalgia, la mia prof d’Italiano delle Superiori che, con
aria da libro Cuore, ci ripeteva spesso: "Eroismo è vivere, non
morire!". E ancora adesso, intimamente, me lo ripeto, quando lo
sconforto fa capolino nel fracasso delle nostre classi-pollaio, e la
delusione trionfa sulle "vite precarie" dei tanti-troppi colleghi della
mia generazione,… e "la Speranza, piange, e l’atroce Angoscia,
dispotica, / pianta sul mio cranio dilaniato chinato il suo nero
vessillo". E con lucida indulgenza voglio celebrare le giovani vite
d’uomini e di donne forti e fragili. Da Sylvia Plath a Sarah Kane… una
lunga scia di morte e di vita sognante…
"Morire
è un’arte, come qualsiasi
altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale
io lo faccio che sembra un inferno
io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho vocazione".
Sylvia Plath si suicidava a Londra, cinquant’anni fa, l’11 febbraio
1963, a soli 30 anni. Nei versi di Lady Lazarus, poesia contenuta nella
raccolta postuma Ariel, la poetessa americana sembrava già flirtare con
la morte. Nel luglio del 1950, nei suoi Diari, così scriveva: “Forse
non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota,
un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il
giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte
freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora
capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare.
Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di
dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da
piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti
come questi sarei una stupida a chiedere di più”.
Cos’è che spinge a
fare quel passo oltre il quale non c’è più niente di noto? Oltre il
quale quello che è lasciato alle spalle, è lasciato per sempre. Sylvia,
divisa tra le aspirazioni da scrittrice e le mansioni da donna, le
pressioni da madre e il disagio coniugale nella fredda Londra. Sylvia
con due bambini ancora addormentati nella stanza vicina, e lei con la
testa nel forno per raggiungere la sua “vocazione”, la morte. E come
lei tante scrittrici e poetesse che nella penna hanno trovato la
consolazione, lo sfogo, il tormento. Antonia Pozzi aveva solo 26 anni
quando si uccise con dei barbiturici la sera del 3 dicembre del 1938,
nel prato di fronte all’abbazia di Chiaravalle di Milano. Di sicuro era
oppressa dal chiuso ambiente familiare, di certo era anima
sensibilissima. La sua voce di poetessa ci giunse solo postuma. “Triste
orto abbandonato l’anima / si cinge di selvagge siepi / di amori:
morire è questo / ricoprirsi di rovi / nati in noi”.
Così scriveva in
Naufraghi nel 1933: a 21 anni una ragazza che ne sa cos’è la morte? O
forse è ancor più vivido, nel pulsare della vita, il suo volto
nascosto? Quando ti sfiora il desiderio della morte, non c’è età, non
c’è maturità, non c’è spiegazione che a noi, al di qua della linea,
possa riempirci. Virginia Woolf, il 28 marzo 1941, a 59 anni, si riempì
le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, vicino alla sua
casa nei pressi di Rodmell. La scrittrice inglese, femminista convinta,
lottava per la parità dei sessi, ben capendo le fatiche che doveva
affrontare all’epoca il cuore di un poeta, “intrappolato in un corpo di
una donna”. Stava male. Al marito lasciò un biglietto di addio
commovente: “Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò
sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato
la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che
nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano
potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile
malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita,
che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so”. Anne Sexton
aveva 45 anni quando, il 4 ottobre 1974, si intossicò con il monossido
di carbonio nel suo garage a Boston.
Soffriva di disturbo bipolare e
proprio dopo un esaurimento venne incoraggiata da un dottore a scrivere
poesie. “Dove vai quando una vita finisce, / la vita / per cui hai dato
tanto?”. Se lo chiedeva la poetessa americana in “Uccidendo l’amore”,
nella raccolta postuma 45 Mercy Street. In questi giorni molte
scrittrici, poetesse, donne, riflettono sul suicidio di Sylvia Plath. E
in tante sono a chiedersi se Sylvia si sarebbe salvata se fosse nata in
un’epoca diversa, in un momento come quello attuale in cui gli
psico-farmaci non sono più visti come un’onta. Chi può dirlo.
Di
recente anche la britannica Sarah Kane, voce ribelle del teatro
moderno, ha ceduto alla depressione, il 20 febbraio 1999, a soli 28
anni, si è impiccata, a Londra, con i lacci delle scarpe nella sua
camera d’ospedale. Amelia Rosselli, apolide della poesia dal verso
ruvido ed energico, si è tolta la vita buttandosi dalla finestra della
sua casa di Roma, l’11 febbraio 1996, lo stesso giorno della morte di
Sylvia Plath, autrice che aveva tradotto e tanto amato. Il “mal di
vivere”, il desiderio della morte, oscilla e si muove ancora,
purtroppo, come in un intreccio. Ma forse,… l’unico vero mistero è
proprio la morte, questo tremendo presagio del nulla eterno, che viene
a scassinare le nostre vite, come un ladro di notte, nel dolce tepore
delle nostre case, che ci strappa la luce e ci smarrisce per luoghi
oscuri e indecifrabili,… per sempre. Questo “sempre” che ci fa paura da
sempre…
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it
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