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Didattica: La mia prof d’Italiano, Sylvia Plath e le poetesse suicide

Redazione
Ricordo ancora, con nitida nostalgia, la mia prof d’Italiano delle Superiori che, con aria da libro Cuore, ci ripeteva spesso: "Eroismo è vivere, non morire!". E ancora adesso, intimamente, me lo ripeto, quando lo sconforto fa capolino nel fracasso delle nostre classi-pollaio, e la delusione trionfa sulle "vite precarie" dei tanti-troppi colleghi della mia generazione,… e "la Speranza, piange, e l’atroce Angoscia, dispotica, / pianta sul mio cranio dilaniato chinato il suo nero vessillo". E con lucida indulgenza voglio celebrare le giovani vite d’uomini e di donne forti e fragili. Da Sylvia Plath a Sarah Kane… una lunga scia di morte e di vita sognante…
"Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale
io lo faccio che sembra un inferno
io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho vocazione".
Sylvia Plath si suicidava a Londra, cinquant’anni fa, l’11 febbraio 1963, a soli 30 anni. Nei versi di Lady Lazarus, poesia contenuta nella raccolta postuma Ariel, la poetessa americana sembrava già flirtare con la morte. Nel luglio del 1950, nei suoi Diari, così scriveva: “Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più”.

Cos’è che spinge a fare quel passo oltre il quale non c’è più niente di noto? Oltre il quale quello che è lasciato alle spalle, è lasciato per sempre. Sylvia, divisa tra le aspirazioni da scrittrice e le mansioni da donna, le pressioni da madre e il disagio coniugale nella fredda Londra. Sylvia con due bambini ancora addormentati nella stanza vicina, e lei con la testa nel forno per raggiungere la sua “vocazione”, la morte. E come lei tante scrittrici e poetesse che nella penna hanno trovato la consolazione, lo sfogo, il tormento. Antonia Pozzi aveva solo 26 anni quando si uccise con dei barbiturici la sera del 3 dicembre del 1938, nel prato di fronte all’abbazia di Chiaravalle di Milano. Di sicuro era oppressa dal chiuso ambiente familiare, di certo era anima sensibilissima. La sua voce di poetessa ci giunse solo postuma. “Triste orto abbandonato l’anima / si cinge di selvagge siepi / di amori: morire è questo / ricoprirsi di rovi / nati in noi”.

Così scriveva in Naufraghi nel 1933: a 21 anni una ragazza che ne sa cos’è la morte? O forse è ancor più vivido, nel pulsare della vita, il suo volto nascosto? Quando ti sfiora il desiderio della morte, non c’è età, non c’è maturità, non c’è spiegazione che a noi, al di qua della linea, possa riempirci. Virginia Woolf, il 28 marzo 1941, a 59 anni, si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, vicino alla sua casa nei pressi di Rodmell. La scrittrice inglese, femminista convinta, lottava per la parità dei sessi, ben capendo le fatiche che doveva affrontare all’epoca il cuore di un poeta, “intrappolato in un corpo di una donna”. Stava male. Al marito lasciò un biglietto di addio commovente: “Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so”. Anne Sexton aveva 45 anni quando, il 4 ottobre 1974, si intossicò con il monossido di carbonio nel suo garage a Boston.

Soffriva di disturbo bipolare e proprio dopo un esaurimento venne incoraggiata da un dottore a scrivere poesie. “Dove vai quando una vita finisce, / la vita / per cui hai dato tanto?”. Se lo chiedeva la poetessa americana in “Uccidendo l’amore”, nella raccolta postuma 45 Mercy Street. In questi giorni molte scrittrici, poetesse, donne, riflettono sul suicidio di Sylvia Plath. E in tante sono a chiedersi se Sylvia si sarebbe salvata se fosse nata in un’epoca diversa, in un momento come quello attuale in cui gli psico-farmaci non sono più visti come un’onta. Chi può dirlo.

Di recente anche la britannica Sarah Kane, voce ribelle del teatro moderno, ha ceduto alla depressione, il 20 febbraio 1999, a soli 28 anni, si è impiccata, a Londra, con i lacci delle scarpe nella sua camera d’ospedale. Amelia Rosselli, apolide della poesia dal verso ruvido ed energico, si è tolta la vita buttandosi dalla finestra della sua casa di Roma, l’11 febbraio 1996, lo stesso giorno della morte di Sylvia Plath, autrice che aveva tradotto e tanto amato. Il “mal di vivere”, il desiderio della morte, oscilla e si muove ancora, purtroppo, come in un intreccio. Ma forse,… l’unico vero mistero è proprio la morte, questo tremendo presagio del nulla eterno, che viene a scassinare le nostre vite, come un ladro di notte, nel dolce tepore delle nostre case, che ci strappa la luce e ci smarrisce per luoghi oscuri e indecifrabili,… per sempre. Questo “sempre” che ci fa paura da sempre…

Angelo Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it








Postato il Domenica, 17 novembre 2013 ore 08:00:00 CET di Angelo Battiato
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