Genova. Celeste Barone tra la «erre» di Wei Li e l'odio del piccolo libanese
La maestra Celeste non è mai riuscita ad accettare la «erre» mancante di Wei Li. Si è sempre sentita responsabile, per quel bambino che dopo cinque anni parlava ancora come i cinesi dei cartoni animati. «Alle Elementari hai sempre paura che un tuo fallimento segni in maniera indelebile un essere umano. Quando escono da qui, non li rivedi più, e ti chiedi che ne è stato di loro. Noi siamo le fondamenta della casa, quelli che cominciano qualcosa che altri finiranno». Un giorno ancora lontano, quando finirà di insegnare, Celeste Barone scenderà negli archivi della De Scalzi-Polacco, la scuola dove lavora da ormai 15 anni, e si leggerà i registri di quando i bambini «ariani» entravano dall'ingresso principale e quelli ebrei da una porticina sul retro, invisibili agli altri, contabilità separate, le loro vite documentate solo dagli appositi «registri della razza ebraica». Ne farà un libro, forse.
Anche la maestra Celeste è stata una bambina discriminata. È nata ad Asmara, figlia di un soldato che a guerra finita decise di restare in Eritrea per fare il fotografo. Quando la famiglia Barone tornò a Genova, lei e suo fratello erano chiamati «gli africani» dai compagni di classe. Non è un caso, dice, che entrambi siano finiti ad insegnare in istituti che hanno il quaranta per cento di alunni extracomunitari, lei alle Elementari, lui alla media Don Milani, la scuola ai bordi dei carrugi del centro storico che nel 1998 divenne un simbolo dell'Italia multietnica, quando si scoprì che tra i suoi banchi nove ragazzi su dieci erano stranieri. Fu allora che cominciò a funzionare una rete di accoglienza che anche oggi si occupa di distribuire in modo omogeneo gli allievi extracomunitari nelle varie scuole, per evitare la creazione di ghetti. Un osservatorio «indirizza» le iscrizioni alle primarie, mentre il Cras, Centro risorse alunni stranieri, da quasi dieci anni si occupa di formare gli insegnanti e distribuisce libri nelle diverse lingue d'origine. «Basta? Non credo. I programmi ministeriali si ispirano sempre alla poetica della maestrina con la penna rossa, che è sicuramente un modo di intendere il mestiere, ma da solo non è più sufficiente. Siamo diventati leggermente più tecnologici, solo questo». Il sistema scricchiola dalle fondamenta, anche in una città-pilota come Genova. I mediatori culturali, che sono pagati dal Comune, sono stati dimezzati negli ultimi anni, e la loro presenza si riduce ormai a qualche ora settimanale. A settembre il ministro Fioroni ha spedito 40 mila euro per le scuole della città, e solo in minima parte quei soldi sono stati utilizzati per accoglienza e inclusione dei bambini stranieri.
Alla fine si torna sempre a loro, alle maestre e alla buona volontà, una sorta di volontariato non obbligatorio ma necessario. «Il problema — dice Celeste Barone — è altrove, nell'università che non funziona. A chi vuole diventare maestro o professore si insegna di tutto senza fargli imparare un granché. Le ex Magistrali non formano, e parecchi dei giovani insegnanti mancano di passione e preparazione. Ogni tanto mi capita di andare all'estero per convegni, e vedo che i colleghi hanno competenze, capacità e conoscenze didattiche che le nostre scuole di formazione si sognano». L'integrazione, e molto altro ancora, comincia alle Elementari, l'unico ambiente protetto della scuola italiana, sottoposto a cambiamenti continui, ma in fondo sempre uguale a se stesso. Celeste ha una classe con sette etnie diverse, un caleidoscopio dove si concentrano i problemi che oggi una maestra si trova davanti. C'è il bimbo albanese con madre ancora ragazza che non riesce ad imparare una parola d'italiano. A settembre il piccolo libanese le ha detto che in estate suo cugino era morto su una mina israeliana, glielo avevano raccontato i nonni, e quindi aveva deciso che da grande avrebbe «odiato» i nemici. «Non è facile, spiegare ad un essere umano di sette anni sottoposto all'influenza dei grandi che l'odio non è un lavoro, non è niente».
Durante l'anno arriva sempre il momento in cui il medico scolastico impone la tubercolinica, e tocca spiegarlo ai genitori dei cinesi. «Penso che se qualcuno mi filmasse e mi spedisse su YouTube, spopolerei. Metto su una faccia da "bacillo di Koch", simulo atroci sofferenze, e solo allora la madre, preoccupata per la mia salute, mi prende la mano per farmi capire che va tutto bene. Un gesto di pietà». Anche a guardarla dal giardino delle Elementari, la famiglia non se la passa bene. «I bambini sanno essere crudeli, ma non conoscono ancora il razzismo. Le loro famiglie invece sì. Gli stranieri vogliono fortemente integrarsi, per condividere gli stessi giochi degli italiani, scambiarsi le figurine dei Gormiti. Ma quando un alunno ecuadoriano o marocchino sparisce da scuola, e purtroppo capita spesso, i genitori degli altri tirano un sospiro di sollievo, qualcuno dice che così il rischio dei pidocchi diminuisce e non si rende conto che sta pronunciando un'enormità. È un razzismo inconsapevole e strisciante. I figli accettano il diverso in modo incondizionato, mentre i genitori lo fanno solo per motivi di facciata, di rispettabilità». Non è passato molto tempo da quando Celeste si trovò appeso alla porta della classe l'invito alla festa di un alunno italiano, scritto dalla sua mamma. «Piccolo dettaglio, era nominale. Una lista di nomi, non tutti. Tu sì, tu no. E gli esclusi, ovviamente, erano stranieri». Non è una peculiarità italiana. Ecuadoriani e peruviani si odiano per ragioni storiche, ma in classe giocano insieme. Le loro madri invece non si parlano, e questo silenzio inevitabilmente sgocciola sui figli. «Dopo qualche mese, è facile che un bimbo ti dica che "quando sono grande a quello non gli faccio più amico"».
La speranza è nelle nuove generazioni, non di figli, ma di madri e padri. «Da qualche anno qualcosa sta cambiando. I sessantottini sono stati mediamente dei genitori orrendi. Disastri familiari, un caos affettivo inenarrabile, i bimbi gestiti come pacchi postali, impicci viventi da incastrare nell'agenda giornaliera, e sempre la pretesa che la colpa del disagio dei figli fosse di altri, del coniuge separato, della società ingiusta, mai loro. Nei nuovi genitori, invece, vedo una maggiore e più serena accettazione delle proprie responsabilità, dell'essere famiglia». Celeste ci si è trovata, questo mestiere non lo ha scelto. Ma alla domanda sul perché lo fa da oltre trent'anni, spunta fuori la maestra dalla penna rossa che è in lei, mischiata a qualcosa di molto personale. «Suonerà un po' retorico, ma l'unica risposta è questa: sono una signora di mezza età che non ha mai avuto figli. L'illusione di lasciare su ognuno di questi bambini una ditata, un'impronta positiva, è comunque un modo per guadagnarmi l'eternità». Pochi giorni fa, Celeste era sull'autobus. Ad una fermata, dai due ingressi della vettura è entrato un gruppo di ragazzi. Li ha guardati, mentre facevano casino, insultandosi da un capo all'altro della vettura. Uno di loro le sembrava di averlo già visto. Non si è fatta avanti, perché le maestre sono così, hanno paura di disturbare, hanno la percezione del tempo che passa. La maestra ha stretto gli occhi, per scrutare meglio i lineamenti di uno spilungone cinese. Era Wei Li, senza dubbio. Negli anni, aveva imparato tante cose, non tutte necessarie. Urlava, in mezzo agli altri passeggeri. Diceva «stronzo», «porca troia». Ma la «erre», quella, era perfetta.
Marco Imarisio (da www.corriere.it)
06 aprile 2007