Dibattito sul malessere giovanile
Data: Venerdì, 16 marzo 2007 ore 20:57:13 CET
Argomento: Rassegna stampa


Di Stefano: la scuola non è indifferente ai grandi valori

PALERMO. «Non è sufficiente insegnare ai ragazzi ad acquisire lo spirito critico. Il docente non può essere indifferente rispetto ai valori fondamentali. La scuola deve sì dare gli strumenti, certo, ma non può assolutamente essere neutra e tralasciare la funzione educativa». È una bocciatura senza appello quella che il dottor Guido Di Stefano, direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale, pronuncia sulla risposta data dal preside e da 28 docenti del liceo «Nicola Spedalieri» di Catania alla lettera-appello dei ragazzi della stessa scuola. Una bocciatura netta, da operatore che conosce bene il mondo della scuola e da genitore, che sa quanto la collaborazione con le famiglie sia fondamentale per la crescita dei giovani. «I docenti dello "Spedalieri" – sottolinea Di Stefano – definiscono "laica" la loro risposta. Ma laico significa non confessionale, non indica certo una persona senza idee. Ci sarà pure qualche professore fazioso, però il vero docente, quello con la "d" maiuscola, fornisce gli strumenti di autoanalisi, ma espone pure le proprie opinioni, e comunque non è in nessun caso "terzo". Mi viene in mente Croce, il suo "Perché non possiamo non dirci cristiani", da non cristiano quale lui era. Una cosa è la confessione, altro sono i valori. E quelli sono fondamentali. Faccio un esempio che può sembrare banale. Io, docente, parlo ai miei ragazzi dell’olocausto, del nazismo, fornisco ai miei allievi gli strumenti critici ma poi non condanno gli orrori del nazismo. Ho fatto davvero il mio lavoro di educatore? Il nodo fondamentale – continua il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale – è che il mio compito di insegnante non è solo istruire, ma anche educare. È vero, non è un ruolo che posso svolgere da solo, devo affiancarmi alla famiglia. Ma non posso esimermi da questo compito. Cinquanta, sessanta anni fa i vecchi libri di didattica distinguevano tra la scuola che aveva il compito di educare - quella che oggi chiamiamo primaria - e la scuola - il cosiddetto "superiore" - che doveva invece istruire. Oggi questa distinzione è superata, la scuola, tutta, ha entrambe le funzioni. Altrimenti non fa crescere gli individui. Un altro esempio. La Germania nazista sfornava tecnici "perfetti", ma mancava l’educazione della persona ai valori». Cosa rispondere, allora, ai ragazzi del liceo «Spedalieri»? «Io – dice Di Stefano – avrei detto loro parliamo, certo. Avrei anche aggiunto che se loro vogliono solo essere aiutati ad essere felici è un po’difficile. La felicità non può darla nessuno. Se, invece, vogliono discutere di un mondo da costruire e dei sacrifici da fare beh, questo è doveroso, perché questo è il mio compito di insegnante. Il docente deve avere tre qualità: ascolto, cervello, cuore. Per ascoltare devo conoscere: i ragazzi che filmano le scene di violenza col telefonino non nascono certo dal nulla, sono figli di una società che li bombarda di messaggi che indicano valori sbagliati, falsi, di genitori che li spingono a cercare il successo a tutti i costi ricorrendo a mezzucci. Poi c’è il cervello: si deve stimolare il cervello dei ragazzi, insegnare loro a ragionare. Ma fondamentale è pure il cuore: io insegnante devo essere capace di creare interesse nei miei ragazzi, di stupirli. Se non lo faccio, fallisco».

MARIATERESA CONTI (da www.lasicilia.it)

 

Sgalambro: «Gli adulti sommersi nella palude»

«Giovani violenti? Parliamo piuttosto degli adulti». Se non facesse di mestiere il provocateur, Manlio Sgalambro che razza di filosofo sarebbe? Il suo prossimo libro, ormai in uscita, si occupa della conoscenza del peggio, giacché «la filosofia ha sempre pensato il meglio. Anzi, l’ottimo. Ma Platone dice: del peggio bisogna sapere. Sono partito di là». Allora, partiamo dal peggio degli adulti. «Le notti violente dei giovani sono molto più regolate dei giorni malmostosi, sregolati, di noi uomini maturi». Notti regolate? «Se parliamo del fenomeno violenza, non posso esimermi, anzitutto, dal prenderne le distanze per osservare la cosa in sé. Di norma, la violenza dell’uomo è dominata dalla regola: dai gladiatori ai pugilatori, dai toreri ai guerrieri, non c’è violenza che non sia ordinata da regole. La violenza diventa ferocia quando, appunto, viene meno ogni regola». E questo dipende da noi grandi? «Da chi altri, sennò? Prendiamo la guerra. Non c’è più guerra che soggiaccia a una regola. I Talebani combattono una guerra senza regole. Non fanno forse lo stesso gli Americani? Il terrorismo copre tutto con una coltre giustificazionista. Pensi solamente ai sistemi di sicurezza negli aeroporti... Siamo costretti a ispezioni personali a mani alzate, a smettere scarpe e guanti, a depositare le impronte digitali, a essere palpati... Non è coercizione questa? Viaggiare l’America, per un cittadino europeo, significa entrare in un rituale di violenza». Anche la violenza giovanile - allo stadio, in discoteca, a scuola - pare obbedisca ai suoi rituali... «Con una differenza, però. In quel caso, le tappe del rito, le sue regole, stanno dentro la violenza stessa, non fuori di essa. L’anti-terrorismo, invece, implica forme di violenza rivolte all’interno della comunità - in qualche modo, contro di essa - e praticate come sistema di difesa dalla violenza esterna. Ma c’è una violenza indotta dall’apparato repressivo. Lei diceva: lo stadio... Veda, io non credo affatto che schierare allo stadio mille poliziotti in assetto di guerra sia uno spettacolo privo di conseguenze». Beh, a Catania, uno di quei mille è stato ammazzato... «Appunto. Mi si capisca: non voglio dire, naturalmente, che quell’omicidio sia correlato allo spiegamento di forza pubblica inteso a prevenire fatti violenti anche meno gravi di quello accaduto. Dico che l’idea di aggiustare il mondo secondo Logik und Polizei, è precisamente un’idea pericolosa. Se il principio di non contraddizione sterilizza la libertà del pensare, l’ostensione di scudi, elmetti e manganelli alla partita di calcio può avere effetti sulla natura del gioco». Lei riesce a immaginare uno stadio senza la sorveglianza di un solo questurino? «Certo che no. Posso immaginare, però, prima che intervengano prefetti e questori, il lavoro di educatori che insegnino ai ragazzi ad ammirare la bellezza del gioco del calcio. Di questo si tratta, in fin dei conti». Dell’educazione o della bellezza? «Dell’una e dell’altra. Ammesso si dia il caso che vadano disgiunte. Ci sono i Bronx, certo; ma la violenza nei Bronx la portiamo noi tutti». Vorrei scendere in dettaglio. Lei crede che il caso Catania abbia una specificità propria? «Se ce l’ha, bisognerebbe legarla ad altre specificità. Mi vengono in mente quei sociologi che definiscono liquida la nostra epoca. Liquida? Direi, piuttosto: oleosa. Si ondeggia come turaccioli su una marea vischiosa, squamosa. Non ci sono fondamenta solide, né modelli di riferimento. Ci sono mode. Ma alle mode, diceva Hegel, bisogna stare attenti: possono essere età dello spirito. I giovani annaspano? Può darsi. Qualche anziano, in compenso, è già sommerso dalla palude. Non abbiamo ancora avviato le opere di bonifica». Da dove comincerebbe? «Dal principio di autorità e dal principio di responsabilità. L’autorità è credibile - direi, amabile - in quanto è autorevole, non autoritaria. Ad essa si aderisce spontaneamente: non per timore di punizioni, ma per amore di esempi. Quanto alla responsabilità, è sempre individuale. Genitori o insegnanti che non trasmettano simili princìpi, hanno già abdicato al ruolo ». Alcuni insegnanti del liceo "Spedalieri" di Catania hanno scritto che la scuola non deve offrire valori agli studenti, bensì fornire il metodo che li aiuti a trovarseli da sé. «Insisto: è un’abdicazione, una forma di sottostima, di autosvalutazione, del lavoro di docenza. L’educatore che fa della paidéia una pura questione di metodo, rinuncia alla metà del suo compito». Perciò, molti genitori, in fatti e fattacci scolastici, dànno quasi sempre torto ai professori e quasi sempre ragione ai figli? «Non ho molta fiducia nella famiglia in queste faccende. Chi dà la colpa alla famiglia in queste cose, non sa cosa dice. O, se lo sa, ne discorre annoiato. La famiglia oggi è un luogo di controversie, di dispute: fra coniugi, ex coniugi, o separati potenziali. La scuola, sì, può trovare il modo di uscire dal pantano». Come? «L’educazione ridiventi formazione. Le faccio un solo esempio: tutti i ragazzi che conosco parlano inglese con la stessa abilità con cui battono i tasti del pc. Sarà un vantaggio, ma non è un merito. Chi sa qualcosa di Shakespeare? Diffondere una lingua, senza la cultura diffusa in quella lingua, è educativo forse, ma certo non è formativo». Ammesso che siano tanti i docenti d’inglese nei licei capaci di trasmettere Shakespeare, sia pure come valore aggiunto... «Ammesso, e non concesso, questo. Of course».

GIUSEPPE TESTA (da www.lasicilia.it)







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