Memoria e verità. Per la ri-nazionalizzazione della scuola pubblica
Data: Domenica, 14 giugno 2015 ore 02:00:00 CEST Argomento: Redazione
Dico subito,
per spazzare ogni equivoco, che la sinistra al potere nella
seconda parte degli anni Novanta del Novecento non è stata in
grado di affrontare una riforma scolastica capace di venire incontro
alle autentiche e moderne esigenze del Paese, e il povero Berlinguer,
caduto nella trappola di un gruppo ambizioso di pedagogisti e
costituzionalisti che cercavano fama proponendo nei loro rispettivi
campi delle autentiche amenità, non ha potuto fare altro che provocare
contrasti, scissioni e rovine. Basta qualche esempio per dare l'idea
della devastazione amministrativa e della deriva pedagogica cui si
pervenne alla fine degli anni Novanta. E vengono in mente, da una
parte, la vasta e contraddittoria legislazione sull'autonomia e la
dirigenza che ha contribuito ad invertire la rotta ed a smantellare il
sistema scolastico nazionale e, dall'altra, la teorizzazione di un
pedagogismo d'accatto tutto proteso ad inventare una scuola assurda e
impossibile. Nessuno gridò allo scandalo allorché il costituzionalista
Franco Bassanini con la legge che porta il suo nome legittimò
rozzamente lo sminuzzamento dell'ordinamento scolastico nazionale e lo
riversò astutamente nei vari contenitori locali:
"L'autonomia delle istituzioni
scolastiche e degli istituti educativi si inserisce nel processo di
realizzazione dell'autonomia e della riorganizzazione dell'intero
sistema educativo. Ai fini della realizzazione dell'autonomia delle
istituzioni scolastiche le funzioni dell'Amministrazione centrale e
periferica della pubblica istruzione in materia di gestione del
servizio d'istruzione...sono progressivamente attribuite alle
istituzioni
scolastiche" (art. 21, c.1 della legge n. 59/97).
Egli nulla sapeva di disciplinarità, valutazione, pedagogia e didattica
e applicava ciecamente alla scuola il principio amministrativo
dell'autonomia aziendale. E nessuno s'indignò quando un pedagogista
accreditato nella sede ministeriale si permise di dichiarare
solennemente che ormai "per una larga
parte della popolazione, la triade che per un lungo periodo di sviluppo
della scuola ha rappresentato un riferimento sicuro (leggere, scrivere,
far di conto) non è più così importante: non si scrivono lettere ma si
telefona, non si legge il giornale ma si ascoltano notiziari alla radio
o alla televisione, non si eseguono operazioni ma si usa un piccolo
apparecchio per il calcolo" (B. Vertecchi,1999). Egli andava
elaborando criteri valutativi e modelli didattici ripescati da altre
nazioni e già superati altrove, e si dilettava con i "nuovi" sistemi.
Non a caso ebbe inizio allora una proliferazione normativa che
conteneva riferimenti, diretti o indiretti, alla nozione poderosa e
fascinosa di "autonomia" coniugata in tutte le salse e capace di
produrre molta confusione e di oscurare l'intero percorso formativo con
il suo vasto corteo di crediti, debiti, moduli, unità didattiche,
funzioni strumentali, didattiche brevi, ecc. Fu la rovina e la caduta
ingloriosa dell'istruzione pubblica, orgogliosamente interpretata
invece dal ministro Luigi Berlinguer come l'inizio di una nuova
stagione di liberazione: "L'art. 21 della legge Bassanini festeggerà il
prossimo marzo il suo secondo compleanno. E sarà allora già tempo di
primi bilanci. A tutt'oggi, un dato mi pare difficilmente contestabile:
la battaglia normativa sull'autonomia è ormai vinta [...] La Bassanini
non costituisce una silloge di disposizioni indolori. Al contrario essa
pare destinata a intaccare nel profondo alcune strutture portanti(e
persino il costume consolidato)del sistema formativo del nostro Paese.
E' ormai ben noto come l'animus
della nuova legge sia quello di offrire
largo spazio alle iniziative autonome e persino alla fantasia dei
soggetti interessati" (L. Berlinguer, 1998).
L'ansia del nuovo sviluppava un progettismo confuso, dispersivo,
disperato e costoso che si intrecciava con le varie proposte e
realizzazioni disfattiste del decentramento amministrativo nella scuola
degradata dell'autonomia deresponsabilizzante, abbandonata a se stessa
e spudoratamente autoreferenziale. La disarticolazione del sistema si
concluse con la soppressione formale dei vari Provveditorati agli
Studi, trasformati in Centri di Servizi Amministrativi, e l'istituzione
in ogni regione dell'Ufficio Scolastico di livello dirigenziale
generale, "che costituiva un autonomo centro di responsabilità
amministrativa, al quale venivano assegnate tutte le funzioni già
spettanti agli uffici periferici dell'amministrazione della pubblica
istruzione". Lo sforzo riformatore e dissolvitore fu davvero eroico.
Devastanti, però, sono stati i risultati di un'azione tanto clamorosa
quanto farraginosa e senza una speciale significazione didattica perché
assunta con lo sguardo rivolto ai potenti locali da sistemare nei posti
strategici dell'amministrazione scolastica, in tutte le forme e gli
angoli della dirigenza. La divaricazione tra le due Italie da quel
momento divenne più profonda ed evidente, poiché la logica
dell'autonomia regionale e delle autonomie locali andava nella
pericolosa direzione dell'abbandono dell'unità nazionale. Se la scuola
nelle regioni del Sud era già di basso livello, ciò si doveva proprio
ad un autonomismo occulto e di cattiva qualità che ha aggravato la
situazione preesistente ed ha allargato la piaga della disparità; ma il
fenomeno si ripresentava adesso anche al Nord, dove
esistevano disomogeneità terrificanti persino tra le scuole della
stessa città. Le Signore Letizia Moratti e Mariastella Gelmini dei
governi berlusconiani sembravano non accorgersi di tali disastri e,
anziché esporre minuziosamente i vizi che provenivano dal passato, si
meravigliavano di fronte alla diversità antropologica e geografica dei
risultati scolastici. E non si trovava il vero rimedio, che consisteva
nel ripristino dei più validi meccanismi nazionali e nel duro
contenimento delle discriminanti, diseguali e autolesionistiche
autonomie scolastiche. La scuola italiana,in sostanza, avrebbe avuto
bisogno non di autarchia, ma di maggiore omogeneità,di
accentramento e di più stretto controllo didattico e amministrativo,
dopo le manovre disfattiste messe in atto per soddisfare ambiziosi
poteri feudali e far finta di tendere la mano a Bossi e al suo
indomabile federalismo secessionista.
Bisognerebbe rompere con il prepotente movimento centrifugo e fare
ritorno alla vecchia e cara scuola nazionale che sanciva la
parità e l'uguaglianza dei cittadini con l'eguale somministrazione del
servizio, che non escludeva l'esaltazione delle qualità locali e
assicurava che le delicate funzioni formative si ricoprissero
generalmente per concorsi nazionali e non già per corsi riservati o per
cooptazione, per semplice chiamata o per privilegi di nascita e di
geografia. Lo scandalo sollevato dalla parentopoli universitaria
è infatti la conseguenza di un andazzo instaurato con i meccanismi
creati dalle varie "riforme" e con l'accresciuta dimensione e
proliferazione dei corsi di laurea a seguito della bella combinazione
del 3+2, dell'istituzione presso le università dei corsi biennali di
abilitazione all'insegnamento,della ingegnosa produzione di nuovi
corsi universitari dispersi per il territorio nazionale, della maggiore
autonomia conquistata dai singoli atenei, ecc. Tale autonomia è stata
la causa di gravissimi guasti e renderà difficile, se non impossibile,
il superamento delle attuali gravi difficoltà, che accomunano i centri
universitari italiani, da nord a sud, da est ad ovest. Quello
dell'autonomia è dunque un problema che può cominciare ad essere
analizzato nelle sue varie componenti e con il coraggio che si richiede
nelle operazioni traumatiche di scissione e ricomposizione. Le ultime
notizie dalle varie università non sono certo edificanti, e più
terrificanti sotto il profilo didattico sono quelle che provengono
dalle scuole medie di primo e secondo grado di alcune aree territoriali
periferiche o centrali. La decadenza inesorabile e la disparità
regionale sono state solennemente confermate dal recente Rapporto sulla
scuola in Italia (2014) della Fondazione Giovanni Agnelli, che
ripropone come strumento esplorativo, conoscitivo e correttivo il
metodo della valutazione "esterna".
La cultura della responsabilità non si può inventare con l'autonomia
amministrativa e gestionale, distribuita in dosi più o meno grandi, né
tanto meno la capacità didattica e organizzativa interna alle singole
scuole può sorgere dalle squallide rovine del progettismo pedagogico. I
dati di oggi ci dicono che sarebbe stato necessario avere una scuola
più istituzionalizzata e centralizzata, anziché questa allegramente
autonomistica e autarchicamente autoreferenziale, soprattutto se si
dovesse procedere ad una valutazione interna affidata ai
dirigenti scolastici. Ma destra e sinistra accomunate dal medesimo
progetto scolastico dovrebbero almeno sapere quale è esattamente
l'ordine delle priorità e penetrare il "mistero" della decadenza
culturale, scientifica e didattica. Il rischio è anche per la sinistra
che un primo ministro incompetente di cose didattiche determini a modo
suo, magari con l'aiuto di qualche cattivo consulente, la riforma
dell'ordinamento scolastico italiano. Le reali dimensioni dei problemi
che si sono venuti aggrovigliando nel campo della scuola spaventano
davvero e lo stile esuberante di Matteo Renzi con le spericolate
incursioni non è certamente all'altezza delle attuali difficoltà.
Bisogna andare al di là di mere osservazioni quantitative, poiché il
tema principale è di natura qualitativa: il problema della dirigenza di
cui tanto si parla ha la sua origine nella disastrosa politica
scolastica che ha favorito i potentati locali della vita politica e
sindacale e lì ha trovato il suo sostegno, anziché all'interno di una
chiara linea di collegialità consapevole e di forte e prestigiosa
professionalità docente. L'ordinamento scolastico dalla fine degli anni
Novanta del Novecento è stato concepito per l'interesse di pochi ed ha
perduto progressivamente qualsiasi capacità formativa. Tornare
all'antico significa perciò riportare il tutto agli austeri profili
didattici e professionali, rifare i conti con i concorsi nazionali e
bandire tutti i corporativismi, a cominciare da quelli municipali,
parentali, patriarcali e feudali. La scuola è un campo di esclusivo
interesse nazionale e non può cadere nelle mani di nessun potentato
localistico, come aveva ben compreso, per l'università, Giuseppe Dolei
in un'acuta nota apparsa su Belfagor
il 31 luglio 2000
significativamente titolata Il
mercato delle vaccarielle e dei
vaccarielli: "Dove va l'università italiana?
Non pare che la nostra università abbia imboccato la strada giusta.
Anzi si va vistosamente indietro, come dimostra la recente sostituzione
dei concorsi nazionali con una miriade di concorsi locali, protetti,
anzi blindati [...] Il concorso è in realtà basato sfacciatamente sulla
legge del . E' il candidato locale, per quanto
mediocre possa essere, a dettare legge e a pregiudicare il livello del
concorso [...] Così si è scatenato il mercato bovino...] Chi ha
introdotto
un sistema tanto perverso? Doveva proprio la sinistra dare il colpo di
grazia all'acciaccata università italiana? e perché il corpo docente
non ha reagito e protestato nelle forme adeguate [...] I docenti non
possono ignorare che, una volta finita l'annata delle vacche grasse, i
cancelli dell'università resteranno chiusi per molti anni alla
generazione successiva. E l'eliminazione dei migliori diventerà la
stella polare dell'accademia italiana". Perciò bisogna ricostruire con
modalità diverse da quelle che sono state prospettate da Renzi, ma con
molta cautela. Lo diceva chiaramente Ernesto Galli Della Loggia che, in
un editoriale del Corriere della Sera riteneva necessario ridurre il
numero dei corsi di laurea e quello degli esami e delle sedi distaccate
e, per il reclutamento dei docenti universitari, la "istituzione di un
concorso d'idoneità nazionale, facendola finita con il localismo degli
ultimi 15 anni che tanti danni ha fatto" (E. Galli Della Loggia,
Libertà e rigore per l'Università,
mercoledì 3 dicembre 2008).
Appare semplicemente penosa la proposta politica e tecnica
dell'attuale presidente del consiglio sulla scuola. Non si tratta,
tuttavia, di fare semplicemente delle economie o di immettere in ruolo
i tanti docenti precari in possesso ormai di certi titoli di merito
acquisiti nelle periferie territoriali. Vi è tanto bisogno di
semplificare i percorsi e non di moltiplicare i corsi e gli esami,
anche all'altezza della scuola media. Non è il caso di introdurre nuovi
e improbabili sperimentalismi, non solo per alleggerire i costi ma
anche per razionalizzare e purificare un sistema che si è intorbidito
con i molti e confusi interventi opportunistici e clientelari che si
sono susseguiti nel tempo. Il rischio sta nel fatto che senza un punto
di vista pedagogico e didattico non si possa evitare il naufragio.
Occorre aggiungere che è davvero commovente la
passione di quei personaggi di sinistra che durante il loro
dominio si sono dati da fare per distruggere alla base il sistema
scolastico nazionale, proponendo e riproponendo la decantata autonomia
ed il vasto corollario di dirigenze, offerte formative, aggiornamenti a
tappeto, funzioni strumentali, crediti e debiti, inutili corsi di
recupero, ecc. ecc. Costoro si dicono adesso disposti a introdurre una
valutazione dei docenti al buio, nelle sole mani del dirigente di
turno, ed un reclutamento per chiamata diretta, senza tener conto dei
pericoli che presenta.
Appare evidente che il fulcro dell'azione didattica non può consistere
nell'indefinito ampliamento e arricchimento dell'offerta formativa e
dei corsi di recupero e dei supporti quantitativi. Ed è altresì chiaro
che una vera ricostruzione non può non passare per un taglio netto di
ogni grande o piccolo spreco e per una rottura con una prassi
parassitaria nella quale era stato imprigionato lo stesso ministro
Berlinguer nella stagione del suo attivismo riformista. La
riqualificazione della docenza nella sua qualità più preziosa e
prestigiosa e della didattica nel suo nucleo portante e nelle
discipline fondamentali, a cominciare dalla scuola di base, è l'unica
strada da percorrere con decisione e decoro. Ma le cose non sembrano
andare adesso in questa direzione,come del resto avviene con i concorsi
nazionali "ordinari", che sono nati in tempi di vero riformismo e che
sono stati velocemente polverizzati in tempi di retorica
riformatrice a tutto vantaggio del corporativismo localista,
familista e secessionista.
I provvedimenti decisivi non sono ancora stati presi. Non si può
cedere alla feudalità autarchica, né imboccare di nuovo la vecchia
strada degli interventi disarticolati, settoriali e inutili, come la
reintroduzione di inefficaci discipline, né far finta di realizzare
riforme quando invece si è in presenza di semplici pezzi aggiuntivi
destinati a creare più problemi di quelli che in effetti si vogliono
risolvere. Dopo le vere riforme degli anni Sessanta-Settanta-Ottanta
soprattutto sul versante della scuola materna,elementare e media di
primo grado, si è solo accumulato rovina a rovina, dai nuovi e
demagogici esami di maturità alla composizione locale delle commissioni
d'esame, dalla eliminazione dei concorsi nazionali ordinari per
l'immissione in ruolo dei docenti e dei presidi allo smantellamento di
ogni organismo collegiale e della stessa collegialità come concetto
pedagogico e giuridico, ecc. Sono aumentate le spese scolastiche e
universitarie per le famiglie, si è allungato il percorso
formativo degli studenti senza risultati apprezzabili dal punto di
vista del diritto allo studio ed al lavoro. Tutto ciò che si è fatto a
partire dal ministro Luigi Berlinguer appartiene purtroppo all'ordine
della quantità e all'orizzonte degli interessi corporativi. Così si è
soppresso l'istituto magistrale, si sono istituiti i corsi
universitari di Scienze della formazione, sono nate le SSIS
affidate alle università, si è creata la falsa dirigenza scolastica con
l'eliminazione delle preziose e carismatiche figure dei direttori
didattici e dei presidi che, data la loro estrazione culturale e
professionale, erano in grado di seguire da vicino e sostenere la
fatica quotidiana dei docenti e di comprenderne le autentiche
qualità e capacità assieme al comitato di valutazione. In compenso, si
sono organizzati corsi locali per la nuova dirigenza, si sono
notevolmente allungati i tempi della laurea per gli studenti, sono nate
in ogni dove sedi e corsi universitari ufficialmente per rendere più
agevole lo studio, ma in realtà per accontentare amici, parenti e
clienti.
Oggi non si trovano più i vecchi difensori delle SSIS, coloro che le
ritenevano frutto di "autentica rivoluzione nel meccanismo di selezione
e di accertamento della professionalità degli insegnanti" (Luca
Curti,2001). E non può, invece, non rilevarsi la natura ibrida e
ferocemente delimitata di tali organismi, che hanno allungato i tempi
dello studio, spostato in avanti l'ingresso dei giovani nel mondo del
lavoro e restituito apparente potere all'università. E meraviglia che
neppure gli storici operanti nelle sedi universitarie seppero allora
individuare il pericolo rappresentato dalle diverse modalità di
accesso, di organizzazione didattica e di valutazione delle prove nelle
diverse realtà territoriali. Solo Paolo Pezzino, docente di storia
contemporanea a Pisa, ebbe per la verità un timido dubbio sulla
natura corporativa delle SSIS (v. P. Pezzino, 2000). Oggi è il tempo
della verità, e nessuno è disponibile ad accettare per ragioni
ideologiche o falsamente politiche le grandi o piccole mistificazioni
governative, pericolose in sé e gravide di effetti perversi sui reali
interessi della didattica,della moderna formazione dei nostri giovani e
dello sviluppo democratico e civile della comunità nazionale ed europea.
prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com
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