In molti modi si dice intelligenza e in molti modi si fa Scuola
Data: Giovedì, 18 settembre 2014 ore 07:45:00 CEST
Argomento: Redazione


La riduzione dell'intelligenza umana alla sola attività razionale e intellettuale è un'operazione che si sviluppa a partire dagli inizi della filosofia greca e subisce un'intensificazione col neoplatonismo e col cristianesimo, impegnati a purificarla di tutti gli elementi emotivi e sensoriali.
Per impulso di scelte dal sapore ascetico si è venuto a costituire un paradigma di intelligenza, che è stato piegato a meraviglia alle esigenze delle stratificazioni economico-sociali, ai valori e ai convincimenti particolari delle società pre-industriali. Per il prestigio datogli da così grande e lunga tradizione di pensiero e per la sua concomitanza con gli interessi delle classi dirigenti, questo modello di intelligenza pura nel corso della storia è stato fatto proprio da tutti i sistemi scolastici.

Un paradigma elitario e vivo anche quando altri valori, altre classi sociali, altra organizzazione del lavoro e delle attività economiche hanno messo radici nelle nostre società. Un paradigma che non si riesce a smontare, nonostante la consapevolezza acquisita dell'esistenza e del grande valore delle varie forme dell'intelligenza umana, che hanno arricchito e arricchiscono con i propri risultati e con le proprie fatiche la vita dell'uomo.
Da questo modello di intelligenza si è voluto dedurre una gerarchizzazione sociale delle occupazioni umane, che ha voluto collocare al primo posto l'attività intellettuale e all'ultimo posto qualsiasi attività pratica, che avesse a che fare con il lavoro manuale, con il mondo commerciale ed economico e anche con molte delle esperienze artistiche, come se fossero prive di intelligenza o ne facessero un uso sconveniente.
Nel prolungamento storico di questo pregiudizio sociale, che assegna il primato nelle attività umane, sempre e comunque, all'intelligenza "speculativa e razionale", un ruolo importante hanno avuto tutti i filoni del razionalismo, Cartesio e il cartesianesimo, ricollegabili peraltro alla tradizione platonica. "E io trovo qua che il pensiero è un attributo che mi appartiene; solo esso non può essere staccato da me"."Io non sono, dunque, precisamente parlando che una cosa che pensa".

Si ha scienza di ciò che è matematizzabile: estensione, figura, peso, luogo, movimento, durata, numero; mentre apparenti o false sono luce, colore, suoni, odori, sapori, caldo, freddo, cioè le qualità delle cose e della vita.
La perfezione e il rigore delle procedure matematiche e i successi delle scienze empiriche, dove l'intelligenza razionale celebra i suoi trionfi, hanno ridimensionato il valore di ogni altra forma di intelligenza umana, anche se non sono riuscite con la loro superbia a render conto del senso del nostro esistere e della complessità delle relazioni umane.
I sistemi scolastici hanno materializzato questo pregiudizio nella divisione sociale dei gradi e degli ordini di istruzione: scuole per tutti; scuole per chi se lo può permettere; scuole che portano ai ranghi delle elites, scuole che portano alle attività manuali, scuole che portano ai quadri intermedi.Ognuna adatta alle opportunità date dagli ambienti e dalle famiglie di appartenenza, ma non alle doti e alle qualità naturali, come si ama dire e rappresentare ipocritamente, cercando di trasformare i vantaggi sociali ereditari in meriti personali acquisiti.

Tentativi in Italia per uscire da questa gabbia ne sono stati fatti ed è giusto ricordarli, perchè sono stati sostenuti da dibattitti seri e profondi e da lotte politiche e sociali impegnative:la creazione della scuola media unica, con l'introduzione della musica e delle applicazioni pratiche e la progressiva eliminazione del latino; il libero accesso a qualsiasi facoltà all'università da qualsiasi scuola secondaria;la durata quinquennale di ogni indirizzo scolastico; la trasformazione dei curricoli dei tecnici e dei professionali.
I fatti, che come al solito hanno la testa dura, ci ricordano che ciò nondimeno all'università ci si va in prevalenza dai licei (dove prevalgono le discipline logico-teoriche- linguisstiche); che ai licei ci si va da famiglie bene-stanti; che ai professionali si mandano i ragazzi a rischio di esclusione, perchè a malapena sono capaci di leggere e scrivere, dopo 5 anni di scuola primaria e 3 di scuola media.

Considerato il rapporto tra titolo di studio e reddito economico, così come lo documentano da qualche decennio le più serie ricerche di sociologia dell'educazione, si dovrebbe concludere che chi sa parlare e scrivere, chi è in possesso del codice linguistico, praticato a scuola e nelle professioni che contano, chi affina l'intelligenza astratta e/o teorica è destinato a grandi carriere; chi possiede altre forme di intelligenza ed è al di sotto del codice linguistico in voga si deve arrangiare; chi si realizza in prodotti umani che non siano il leggere e lo scrivere o il lavoro intellettuale - razionale, deve accontentarsi di quello che passa il convento.
Il ribaltamento delle storture di questa logica non è responsabilità della sola scuola; è responsabilita della società che in qualche modo finisce per imporre alla scuola la propria scala di valori e a farvi transitare il regime di diversificazione sociale, mantenuto e difeso a denti stretti dai ceti sociali che hanno voce in capitolo nelle vicende politiche e quindi nelle faccende scolastiche.

Se il lavoro manuale è deprezzato, rispetto a qualsiasi lavoro d'ufficio, per quale ragione una famiglia dovrebbe indirizzare un ragazzo verso un'attività sociale poco considerata? Perchè non dovrebbe tentare la strada che conduce all'Università, se prima o poi potrebbe godere di un reddito mediamente superiore a quello dei diplomati o degli operai?
La scuola può non essere il notaio di queste costanti situazioni e far valere se ne ha volontà un codice di valori, congruente con le proprie convizioni e finalità. Le disuguaglianze esterne si riversano dentro la scuola: lo soppiamo; bisogna impedire, però, che possano accumularsi con quelle che possono essere prodotte dal sistema scolastico stesso o dal modo di fare scuola.
Non c'è da fare la guerra alla cultura teorico-linguistica e se anche gli si assegna l'importanza che merita, bisogna stare accorti a farne l'unico criterio di orientamento e di valutazione delle attività scolastiche. La scuola può valorizzare ogni forma di intelligenza e di impegno e anche lavorare perchè il possesso di un adeguato codice linguistico, per le opportunità che apre, sia garantito a tutti.

Anche se il mondo va per i fatti propri, la scuola deve fare le proprie scelte di giustizia e non rassegnarsi ad un ruolo di subalternità ai voleri altrui. Ogni giovane, qualunque sia la sua origine, deve riuscire ad affrontare gli altri su un piano di parità; la scuola deve offrire ad ognuno la possibilità di realizzare il suo potenziale umano per vivere secondo il principio di dignità; nessuno deve restare indietro; nessuno deve uscire dal sistema scolastico senza il bagaglio necessario di competenze per non essere emarginato e per vivere una vita dignitosa; la scuola non deve contribuire ad aumentare le differenze di riuscita tra individuo e individuo; quelli che sono allo stesso livello di talento e di di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli, devono avere le stesse prospettive di successo, senza tener conto della loro posizione sociale.
Ogni singola scuola ha una propria parte da svolgere in questo ambito di problemi: impedire la formazione di classi omogenee e segreganti;dare spazio ai lavori per piccoli gruppi, al lavoro di ricerca,al sostegno e all'accompagnamento individuale; costruire il rapporto educativo sulla fiducia, sulla motivazione, sulla disponibilità all'ascolto, sul rispetto, sul diritto dell'alunno all'autostima; dare responsabilità per compiti significativi (ricerche, dibattiti, giornalino, volontariato, gruppi sportivi, gruppi di teatro, di danza e di musica); assegnare tempo educativo supplementare agli alunni in difficoltà.
L'equità del sistema di istruzione è la sua unica giustificazionne e la sua via d'uscita dalla crisi: rappresenta la sua sfida per il presente e per il futuro. Il problema dell'equità a scuola è quello del comune e universale accesso al sapere e alla conoscenza.

Prof. Raimondo Giunta





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