
Per la dignità della storiografia resistenziale. Contro la storia 'poetica'
Data: Lunedì, 07 luglio 2014 ore 07:30:00 CEST Argomento: Redazione
Ritengo che
sia giunto il momento da molto tempo atteso di elaborare e realizzare
una visione non solo meno parziale e settaria, ma anche più aperta e
penetrante della storia resistenziale. Ciò richiede, ne sono
profondamente convinto, una mentalità totalmente sganciata
dall'ideologia (nel senso marxiano della "falsa coscienza") ed una
diversa impostazione della ricerca. Alcuni interventi di questi giorni
vanno finalmente in questa direzione,anche se essi non
nutrono spesso l'intenzione di indicare nuove metodologie e più
pregnanti e veritieri(e verificabili) approdi contenutistici per un
superamento di quell'attività pseudostoriografica che non ha voluto
rispettare, per motivi di cieca autoreferenzialità o di spicciolo
politicismo, la tensione intellettuale di Antonio Gramsci per una
storia intesa come vero strumento di analisi e di comprensione e
l'ideale cognitivo di Benedetto Croce per una contemporaneità della
ricostruzione storiografica affidata al massimo grado di
competenza scientifica e di narrazione critica di fatti
"certi" e "significativi".
Bisogna dire allora che non tutti i racconti sulla Resistenza
sono operazioni storiografiche e che la dignità della storia
resistenziale non può essere inferiore alla dignità di qualsiasi altra
narrazione storica: "Se il racconto storico è critica, intelligenza,
comprensione, esso non deve ammettere in sé niente che non sia
intellettivamente penetrato e compreso, niente che vi permanga come
cronaca o sequela di fatti, materialmente enunciati, e perciò grevi e
pesanti" (B. Croce). Non basta perciò trattare una materia così nobile
e sublime per ottenere storiografia, ma è necessario compiere uno
sforzo estremo di ricostruzione critica e di problematizzazione di
eventi "veri" e non inventati o semplicemente immaginati e riferibili
alla propria persona o al proprio gruppo regionale o alla propria parte
politica. Valgono ancora le indicazioni metodologiche
crociano-gramsciane e quelle assai illuminanti di Marc Bloch nella sua
splendida Apologia della Storia,
il saggio scritto in clandestinità, nel quale la legittimità
storica si esprime e si determina nel fatto che la storiografia deve
evidenziare il problema e pervenire alla sua soluzione, tenendo conto
esattamente dell'evento filologicamente ricostruito e della sua
interpretazione non eccedente i dati di reltà. Se lo storico non riesce
ad operare secondo un tale criterio, egli "non sarà nel migliore dei
casi che un manovale dell'erudizione" o, aggiungo,uno spacciatore di
moneta falsa che si adopera follemente per farla circolare come
buona.La storia è una scienza che può essere utile all'uomo, e non solo
per riempire i suoi momenti di ozio: "La storia, dunque, anche
indipendentemente da qualsiasi eventuale applicazione alla condotta
pratica, avrà il diritto di rivendicare il suo posto tra le forme di
conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una
classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché
una semplice enumerazione senza nessi e quasi senza limiti" (M.
Bloch, Apologia della storia o
mestiere di storico, a cura di Gerolamo Arnaldi, Einaudi
1969,p.28).
Nell'affrontare il tema della Resistenza italiana non è possibile,
pertanto, seguire né un semplice metodo classificatorio delle azioni
partigiane, né l'antico criterio politologico del racconto di Roberto
Battaglia nella sua Storia della
Resistenza italiana (Einaudi 1953) tutto proteso a far emergere
il ruolo decisivo del "Vento del Nord", dell'eccezionale gestione
politica delle operazioni partigiane e della presenza attiva dei
Comitati di liberazione nazionale in funzione dell'edificazione di
un'Italia repubblicana, democratica e socialista. La prospettiva del
"Vento del Nord" rimane miope e fallimentare in una storia di lunga
durata e presenta contraddizioni incolmabili con i dati di realtà, in
quanto i fatti smentiscono duramente la non-partecipazione del Sud alla
Resistenza,sia a quella armata che a quella disarmata.
Tutta la storiografia successiva al testo di Battaglia è frutto
generalmente di una visione corporativa e parrocchialistica, fino al
libro assai promettente, ben concepito e ottimamente realizzato su La Resistenza in Italia. Storia e critica (Einaudi 2004) di
Santo Peli, che permette e fornisce una nuova e più attenta lettura dei
fatti, le cui interpretazioni sono interessanti perché offrono una
serie di riflessioni non inutili e opportunamente e lodevolmente
condotte, specie in relazione ai militari ribelli di Cefalonia e delle
altre isole del Dodecaneso e degli ufficiali italiani uccisi dai
soldati tedeschi nell'Isola di Kos e degli altri militari catturati ed
internati nei Lager. Esso si occupa con molta diligenza dei
religiosi,dei parroci e dei monaci che si oppongono efficacemente
alle disumanità nazifasciste,delle donne che non fanno solo le
staffette partigiane e della sacrosanta reazione del Sud "a lungo
sacrificato nel panorama nazionale" solo per "la brevità
dell'occupazione tedesca e l'assenza di una resistenza
organizzata"(ibidem, p.235). Il pericolo è sempre in agguato, si sa, ma
nell'impresa ricognitiva di Peli è tracciato il percorso di una
storiografia "dignitosa" e libera da impacci ideologici e che non
presenta più la tendenza a costruire una leggenda della Resistenza,a
manipolare grezzamente qualche episodio esaltante oppure a
sostanziare scopi personali, familiari, municipalistici e
propagandistici. Né è più possibile, dice Santo Peli,"elaborare
un'immagine di efficienza militare superiore alla
realtà"(ibidem,p.113), quando in effetti le forze partigiane in campo
sono abbastanza scarse e molto deboli.
Agiografia, mistificazione, mitologia e autoreferenzialità
costituiscono i termini di una ricostruzione storica piena di falsità e
di politicismo che non regge ai colpi della critica per ragioni
oggettive e soggettive. Non regge in verità la Storia di Battaglia,
come per altri versi è debole la stessa Italia Contemporanea
(1918-1948) di Federico Chabod elaborata per le sue dodici
lezioni parigine del gennaio 1950 con criteri di lunga durata
apparentemente oggettivi e che invece elimina tutti gli ostacoli e
tutte le problematicità sociali e unitarie e semplifica in modo aspro e
sbrigativo il processo di edificazione dell'Italia repubblicana, per la
quale avrebbe avuto inizio e si sarebbe svolta la Resistenza
"azionista" in Alta Italia, senza il contributo del Meridione: "Questo
è il cosiddetto regno del Sud. Qui non troviamo, non possiamo trovare
la Resistenza [...] Ciò significa che sia dal punto di vista politico,
sia da quello militare la popolazione del Mezzogiorno non può conoscere
il fenomeno partigiano (le grandi giornate di Napoli sono un'eccezione
che non muta la situazione generale). Qui la lotta di partiti non è
guerra di resistenza"(F.Chabod, L'Italia
contemporanea (1918-1948), Einaudi 1961,p.120).
Il Sud partecipa invece attivamente alla lotta resistenziale e lo fa
sia sul proprio territorio,in coincidenza con lo sbarco delle truppe
anglo-americane in Sicilia, sia fuori del proprio territorio nelle
varie aree di guerra fuori d'Italia e nelle regioni
centro-settentrionali, come riconosce con molta onestà e grande senso
della realtà il famoso scrittore e umanista antifascista torinese
Augusto Monti, che mette in grande evidenza la massiccia presenza degli
uomini del Sud nella Resistenza piemontese e nella Pianura del Po. Al
momento della svolta decisiva dell'8 settembre siciliani, calabresi,
sardi, ecc., militari in fase di smobilitazione, si trovano a fare la
tragica scelta tra l'adesione o l'opposizione alla RSI di Salò e
organizzano spesso i primi nuclei della Resistenza armata sulle
montagne, e pagano anche la loro estraneità ai luoghi ed alle relazioni
umane e ambientali. I "fuggiaschi" meridionali non possono raggiungere
i loro lontani paesi dopo l'8 settembre, sicché il loro sbandamento e
la loro fuga verso le montagne sono i motivi occasionali della prima
Resistenza armata in Italia. E vi è una spontaneità nella genesi delle
prime bande partigiane che contrasta con le vecchie ricostruzioni
storiografiche tutte impegnate a dimostrare l'intenzionalità della
lotta e la forte consapevolezza degli obiettivi politici nella
strategia antinazista. E vi sono con loro i prigionieri anglosassoni e
di altra nazionalità che sono fuggiti dai campi di concentramento
grazie all'armistizio dell'8 settembre e si sono aggregati alle bande
degli uomini del Sud, come avviene nelle montagne del Piemonte, della
Liguria, del Veneto e nell'Appennino Tosco-Emiliano. Qui assumono
maggiore rilievo la spontaneità organizzativa e le scelte individuali
che sono decisive nella conduzione "razionale" e "nazionale" della
resistenza armata.(v. S. Ragonesi, La
Resistenza del Sud e l'unità nazionale, in "Nuova Secondaria" di
Brescia, n.9, maggio 2013, p.66 e segg.).
Sono calabresi di Crotone i fratelli Guido e Franco Nicoletta che
riuniscono i primi nuclei di sbandati per una resistenza armata in Val
Sangone; ed è calabrese Federico Tallarico, comandante della Brigata
partigiana autonoma operante in Piemonte. Ed è calabrese Dante
Castellucci detto Facio, amico e compagno di lotta dei fratelli Cervi,
che si trova ad organizzare gruppi più o meno autonomi di combattimento
nell'Appennino Tosco-Emiliano. Trasferitosi in Lunigiana, nelle
montagne dello Zerasco subito dopo il memorabile scontro vittorioso
contro i nazifascisti sul Lago Santo sotto il Monte Orsaro, ai confini
tra l'Emilia, la Toscana e la Liguria, egli subisce un destino atroce
descritto dettagliatamente da Carlo Spartaco Capogreco nel saggio Il piombo e l'argento. La vera
storia del partigiano Facio edito da Donzelli nel 2007. Ed è siciliano
di Limina in provincia di Messina il marinaio Antonino Siligato, morto
a Codolo in provincia di Apuania (oggi Massa-Carrara) per aver aderito
alla opposizione antinazista in Val di Vara nei monti sopra La Spezia.
La liberazione di Torino ci restituisce un'immagine perfetta
dell'attiva e numerosa presenza di soldati meridionali "sbandati" ed in
primo luogo del siciliano di Caltanissetta Pompeo Colajanni detto
Nicola Barbato, il famoso protagonista dei Fasci di fine Ottocento. Per
la Resistenza in Liguria invece emergono i nomi gloriosi di Antonio
Rossi di Cardeto, di Salvatore Rizzo di Amantea e di Vincenzo Errico di
Verbicaro in provincia di Cosenza, caduto l'8 luglio 1944 a
Grifola di Borgotaro in provincia di Parma combattendo valorosamente
contro reparti tedeschi. E dei tanti altri ragazzi calabresi,
siciliani, lucani, molisani ecc. ricoperti di gloria la memoria è
affidata con molto pudore alle targhe di città e ai cippi di
montagna sparsi per tutto il Centro-Nord, come nel caso del
catanese Giuseppe Marino il cui nome è affidato ad una
tenera targa posta a Montepulciano, probabilmente da Piero
Calamandrei, sotto il lampione in cui questo giovane è stato impiccato
dai tedeschi. I loro nomi rimangono spesso poco noti e mai celebrati
nei loro stessi paesi. Ma vi è un partigianato di estrazione
meridionale con cui la storiografia deve pur fare i conti, prima o
dopo. Il quadro del Meridione non è infatti quello descritto da Chabod
e non è vero che la popolazione del Sud sia paralizzata da passività.
L'espressione "Vento del Nord" coniata dalla fantasia del socialista
Pietro Nenni non può stabilire una falsa discriminazione tra i due poli
del nostro Paese. Le zone d'inerzia e passività, quando vi sono,
possono caratterizzare qualsiasi punto del territorio nazionale, e non
sono una qualità esclusiva del Sud, che ha versato il suo sangue
per la libertà di tutti.
A quanto pare, l'espressione "Vento del Nord" è concettualmente
inadeguata, anche se essa non manca di fascino poetico e di ottima
retorica nordista, perché la storia non accetta simili fantasie. Il
Croce colloca tra le pseudostorie quelle narrazioni che si affidano
prevalentemente alla fantasia: "Sappiamo già che la storia è pensiero,
è giudizio, è valutazione critica,sicché allorquando si crede di sanare
la frigida indifferenza della storia filologica, surrogando al mancante
interesse del pensiero l'interesse del sentimento,e alla qui
irraggiungibile coerenza logica la coerenza estetica, non si fa che
cadere in un'altra forma erronea di storia o in un altro genere di
pseudostoria, che è la storia poetica. Esempi di tale storia forniscono
in copia le biografie affettuose che si tessono di persone care e
venerate e quelle satiriche di persone aborrite; le storie patriottiche
che innalzano le glorie e piangono le sventure del popolo al quale si
appartiene e col quale si simpatizza,e quelle che spargono di bieca
luce il popolo nemico [...] Né la storia poetica si esaurisce in codeste
tonalità fondamentali e generiche dell'amore e dell'odio [...] ma passa
attraverso le più intricate forme e le più fini gradazioni del
sentimento, e così si ottengono storie poetiche che sono tenere,
malinconiche, nostalgiche, disperate, rassegnate, fidenti, allegre, e
quante altre si possano immaginare" (B. Croce, Il concetto della storia, a cura di
Alfredo Parente, Laterza 1954,pp.135-136).
La storia è pensiero. Se, dunque, nella narrazione di talune vicende
resistenziali non ci troviamo nella condizione di innalzarci alla
configurazione e articolazione logico-critica, possiamo abbandonare il
campo e occuparci solo di poesia, ma non di storiografia;
possiamo trovare il "Vento del Nord", ma non quello del Sud, e non la
storiografia, che abbraccia con il pensiero il problema storico e lo
elabora e rielabora, e lo risolve in modo teoretico e non già nella
fantasia: "Se non ci troviamo in condizione d'innalzarci a questa
soggettività del pensiero, produrremo poesia e non già storia: il
problema storico rimarrà intatto o meglio non sarà nato ancora, e
nascerà quando nascerà. L'interesse che in quel caso ci muove non è
l'interesse della vita che si fa pensiero, ma della vita che si fa
intuizione e fantasia" (ibidem, pp137-138).
Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com
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