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Umanistiche: Per la dignità della storiografia resistenziale. Contro la storia 'poetica'

Redazione
Ritengo che sia giunto il momento da molto tempo atteso di elaborare e realizzare una visione non solo meno parziale e settaria, ma anche più aperta e penetrante della storia resistenziale. Ciò richiede, ne sono profondamente convinto, una mentalità totalmente sganciata dall'ideologia (nel senso marxiano della "falsa coscienza") ed una diversa impostazione della ricerca. Alcuni interventi di questi giorni vanno finalmente in questa direzione,anche se essi non nutrono spesso l'intenzione di indicare nuove metodologie e più pregnanti e veritieri(e verificabili) approdi contenutistici per un superamento di quell'attività pseudostoriografica che non ha voluto rispettare, per motivi di cieca autoreferenzialità o di spicciolo politicismo, la tensione intellettuale di Antonio Gramsci per una storia intesa come vero strumento di analisi e di comprensione e l'ideale cognitivo di Benedetto Croce per una contemporaneità della ricostruzione storiografica affidata al massimo grado di competenza scientifica e di narrazione critica di fatti "certi" e "significativi".

Bisogna dire allora che non tutti i racconti sulla Resistenza sono operazioni storiografiche e che la dignità della storia resistenziale non può essere inferiore alla dignità di qualsiasi altra narrazione storica: "Se il racconto storico è critica, intelligenza, comprensione, esso non deve ammettere in sé niente che non sia intellettivamente penetrato e compreso, niente che vi permanga come cronaca o sequela di fatti, materialmente enunciati, e perciò grevi e pesanti" (B. Croce). Non basta perciò trattare una materia così nobile e sublime per ottenere storiografia, ma è necessario compiere uno sforzo estremo di ricostruzione critica e di problematizzazione di eventi "veri" e non inventati o semplicemente immaginati e riferibili alla propria persona o al proprio gruppo regionale o alla propria parte politica. Valgono ancora le indicazioni metodologiche crociano-gramsciane e quelle assai illuminanti di Marc Bloch nella sua splendida Apologia della Storia, il saggio scritto in clandestinità, nel quale la legittimità storica si esprime e si determina nel fatto che la storiografia deve evidenziare il problema e pervenire alla sua soluzione, tenendo conto esattamente dell'evento filologicamente ricostruito e della sua interpretazione non eccedente i dati di reltà. Se lo storico non riesce ad operare secondo un tale criterio, egli "non sarà nel migliore dei casi che un manovale dell'erudizione" o, aggiungo,uno spacciatore di moneta falsa che si adopera follemente per farla circolare come buona.La storia è una scienza che può essere utile all'uomo, e non solo per riempire i suoi momenti di ozio: "La storia, dunque, anche indipendentemente da qualsiasi eventuale applicazione alla condotta pratica, avrà il diritto di rivendicare il suo posto tra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi e quasi senza limiti" (M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, a cura di Gerolamo Arnaldi, Einaudi 1969,p.28).

Nell'affrontare il tema della Resistenza italiana non è possibile, pertanto, seguire né un semplice metodo classificatorio delle azioni partigiane, né l'antico criterio politologico del racconto di Roberto Battaglia nella sua Storia della Resistenza italiana (Einaudi 1953) tutto proteso a far emergere il ruolo decisivo del "Vento del Nord", dell'eccezionale gestione politica delle operazioni partigiane e della presenza attiva dei Comitati di liberazione nazionale in funzione dell'edificazione di un'Italia repubblicana, democratica e socialista. La prospettiva del "Vento del Nord" rimane miope e fallimentare in una storia di lunga durata e presenta contraddizioni incolmabili con i dati di realtà, in quanto i fatti smentiscono duramente la non-partecipazione del Sud alla Resistenza,sia a quella armata che a quella disarmata.
Tutta la storiografia successiva al testo di Battaglia è frutto generalmente di una visione corporativa e parrocchialistica, fino al libro assai promettente, ben concepito e ottimamente realizzato su La Resistenza in Italia. Storia e critica (Einaudi 2004) di Santo Peli, che permette e fornisce una nuova e più attenta lettura dei fatti, le cui interpretazioni sono interessanti perché offrono una serie di riflessioni non inutili e opportunamente e lodevolmente condotte, specie in relazione ai militari ribelli di Cefalonia e delle altre isole del Dodecaneso e degli ufficiali italiani uccisi dai soldati tedeschi nell'Isola di Kos e degli altri militari catturati ed internati nei Lager. Esso si occupa con molta diligenza dei religiosi,dei parroci e dei monaci che si oppongono efficacemente alle disumanità nazifasciste,delle donne che non fanno solo le staffette partigiane e della sacrosanta reazione del Sud "a lungo sacrificato nel panorama nazionale" solo per "la brevità dell'occupazione tedesca e l'assenza di una resistenza organizzata"(ibidem, p.235). Il pericolo è sempre in agguato, si sa, ma nell'impresa ricognitiva di Peli è tracciato il percorso di una storiografia "dignitosa" e libera da impacci ideologici e che non presenta più la tendenza a costruire una leggenda della Resistenza,a manipolare grezzamente qualche episodio esaltante oppure a sostanziare scopi personali, familiari, municipalistici e propagandistici. Né è più possibile, dice Santo Peli,"elaborare un'immagine di efficienza militare superiore alla realtà"(ibidem,p.113), quando in effetti le forze partigiane in campo sono abbastanza scarse e molto deboli.

Agiografia, mistificazione, mitologia e autoreferenzialità costituiscono i termini di una ricostruzione storica piena di falsità e di politicismo che non regge ai colpi della critica per ragioni oggettive e soggettive. Non regge in verità la Storia di Battaglia, come per altri versi è debole la stessa Italia Contemporanea (1918-1948) di Federico Chabod elaborata per le sue dodici lezioni parigine del gennaio 1950 con criteri di lunga durata apparentemente oggettivi e che invece elimina tutti gli ostacoli e tutte le problematicità sociali e unitarie e semplifica in modo aspro e sbrigativo il processo di edificazione dell'Italia repubblicana, per la quale avrebbe avuto inizio e si sarebbe svolta la Resistenza "azionista" in Alta Italia, senza il contributo del Meridione: "Questo è il cosiddetto regno del Sud. Qui non troviamo, non possiamo trovare la Resistenza [...] Ciò significa che sia dal punto di vista politico, sia da quello militare la popolazione del Mezzogiorno non può conoscere il fenomeno partigiano (le grandi giornate di Napoli sono un'eccezione che non muta la situazione generale). Qui la lotta di partiti non è guerra di resistenza"(F.Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi 1961,p.120).

Il Sud partecipa invece attivamente alla lotta resistenziale e lo fa sia sul proprio territorio,in coincidenza con lo sbarco delle truppe anglo-americane in Sicilia, sia fuori del proprio territorio nelle varie aree di guerra fuori d'Italia e nelle regioni centro-settentrionali, come riconosce con molta onestà e grande senso della realtà il famoso scrittore e umanista antifascista torinese Augusto Monti, che mette in grande evidenza la massiccia presenza degli uomini del Sud nella Resistenza piemontese e nella Pianura del Po. Al momento della svolta decisiva dell'8 settembre siciliani, calabresi, sardi, ecc., militari in fase di smobilitazione, si trovano a fare la tragica scelta tra l'adesione o l'opposizione alla RSI di Salò e organizzano spesso i primi nuclei della Resistenza armata sulle montagne, e pagano anche la loro estraneità ai luoghi ed alle relazioni umane e ambientali. I "fuggiaschi" meridionali non possono raggiungere i loro lontani paesi dopo l'8 settembre, sicché il loro sbandamento e la loro fuga verso le montagne sono i motivi occasionali della prima Resistenza armata in Italia. E vi è una spontaneità nella genesi delle prime bande partigiane che contrasta con le vecchie ricostruzioni storiografiche tutte impegnate a dimostrare l'intenzionalità della lotta e la forte consapevolezza degli obiettivi politici nella strategia antinazista. E vi sono con loro i prigionieri anglosassoni e di altra nazionalità che sono fuggiti dai campi di concentramento grazie all'armistizio dell'8 settembre e si sono aggregati alle bande degli uomini del Sud, come avviene nelle montagne del Piemonte, della Liguria, del Veneto e nell'Appennino Tosco-Emiliano. Qui assumono maggiore rilievo la spontaneità organizzativa e le scelte individuali che sono decisive nella conduzione "razionale" e "nazionale" della resistenza armata.(v. S. Ragonesi, La Resistenza del Sud e l'unità nazionale, in "Nuova Secondaria" di Brescia, n.9, maggio 2013, p.66 e segg.).

Sono calabresi di Crotone i fratelli Guido e Franco Nicoletta che riuniscono i primi nuclei di sbandati per una resistenza armata in Val Sangone; ed è calabrese Federico Tallarico, comandante della Brigata partigiana autonoma operante in Piemonte. Ed è calabrese Dante Castellucci detto Facio, amico e compagno di lotta dei fratelli Cervi, che si trova ad organizzare gruppi più o meno autonomi di combattimento nell'Appennino Tosco-Emiliano. Trasferitosi in Lunigiana, nelle montagne dello Zerasco subito dopo il memorabile scontro vittorioso contro i nazifascisti sul Lago Santo sotto il Monte Orsaro, ai confini tra l'Emilia, la Toscana e la Liguria, egli subisce un destino atroce descritto dettagliatamente da Carlo Spartaco Capogreco nel saggio Il piombo e l'argento. La vera storia del partigiano Facio edito da Donzelli nel 2007. Ed è siciliano di Limina in provincia di Messina il marinaio Antonino Siligato, morto a Codolo in provincia di Apuania (oggi Massa-Carrara) per aver aderito alla opposizione antinazista in Val di Vara nei monti sopra La Spezia.
La liberazione di Torino ci restituisce un'immagine perfetta dell'attiva e numerosa presenza di soldati meridionali "sbandati" ed in primo luogo del siciliano di Caltanissetta Pompeo Colajanni detto Nicola Barbato, il famoso protagonista dei Fasci di fine Ottocento. Per la Resistenza in Liguria invece emergono i nomi gloriosi di Antonio Rossi di Cardeto, di Salvatore Rizzo di Amantea e di Vincenzo Errico di Verbicaro in provincia di Cosenza, caduto l'8 luglio 1944 a Grifola di Borgotaro in provincia di Parma combattendo valorosamente contro reparti tedeschi. E dei tanti altri ragazzi calabresi, siciliani, lucani, molisani ecc. ricoperti di gloria la memoria è affidata con molto pudore alle targhe di città e ai cippi di montagna sparsi per tutto il Centro-Nord, come nel caso del catanese Giuseppe Marino il cui nome è affidato ad una tenera targa posta a Montepulciano, probabilmente da Piero Calamandrei, sotto il lampione in cui questo giovane è stato impiccato dai tedeschi. I loro nomi rimangono spesso poco noti e mai celebrati nei loro stessi paesi. Ma vi è un partigianato di estrazione meridionale con cui la storiografia deve pur fare i conti, prima o dopo. Il quadro del Meridione non è infatti quello descritto da Chabod e non è vero che la popolazione del Sud sia paralizzata da passività. L'espressione "Vento del Nord" coniata dalla fantasia del socialista Pietro Nenni non può stabilire una falsa discriminazione tra i due poli del nostro Paese. Le zone d'inerzia e passività, quando vi sono, possono caratterizzare qualsiasi punto del territorio nazionale, e non sono una qualità esclusiva del Sud, che ha versato il suo sangue per la libertà di tutti.
A quanto pare, l'espressione "Vento del Nord" è concettualmente inadeguata, anche se essa non manca di fascino poetico e di ottima retorica nordista, perché la storia non accetta simili fantasie. Il Croce colloca tra le pseudostorie quelle narrazioni che si affidano prevalentemente alla fantasia: "Sappiamo già che la storia è pensiero, è giudizio, è valutazione critica,sicché allorquando si crede di sanare la frigida indifferenza della storia filologica, surrogando al mancante interesse del pensiero l'interesse del sentimento,e alla qui irraggiungibile coerenza logica la coerenza estetica, non si fa che cadere in un'altra forma erronea di storia o in un altro genere di pseudostoria, che è la storia poetica. Esempi di tale storia forniscono in copia le biografie affettuose che si tessono di persone care e venerate e quelle satiriche di persone aborrite; le storie patriottiche che innalzano le glorie e piangono le sventure del popolo al quale si appartiene e col quale si simpatizza,e quelle che spargono di bieca luce il popolo nemico [...] Né la storia poetica si esaurisce in codeste tonalità fondamentali e generiche dell'amore e dell'odio [...] ma passa attraverso le più intricate forme e le più fini gradazioni del sentimento, e così si ottengono storie poetiche che sono tenere, malinconiche, nostalgiche, disperate, rassegnate, fidenti, allegre, e quante altre si possano immaginare" (B. Croce, Il concetto della storia, a cura di Alfredo Parente, Laterza 1954,pp.135-136).
La storia è pensiero. Se, dunque, nella narrazione di talune vicende resistenziali non ci troviamo nella condizione di innalzarci alla configurazione e articolazione logico-critica, possiamo abbandonare il campo e occuparci solo di poesia, ma non di storiografia; possiamo trovare il "Vento del Nord", ma non quello del Sud, e non la storiografia, che abbraccia con il pensiero il problema storico e lo elabora e rielabora, e lo risolve in modo teoretico e non già nella fantasia: "Se non ci troviamo in condizione d'innalzarci a questa soggettività del pensiero, produrremo poesia e non già storia: il problema storico rimarrà intatto o meglio non sarà nato ancora, e nascerà quando nascerà. L'interesse che in quel caso ci muove non è l'interesse della vita che si fa pensiero, ma della vita che si fa intuizione e fantasia" (ibidem, pp137-138).

Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com








Postato il Lunedì, 07 luglio 2014 ore 07:30:00 CEST di Michelangelo Nicotra
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