Le origini del culto di San Giacomo in Sicilia
Data: Mercoledì, 11 giugno 2014 ore 06:30:00 CEST
Argomento: Redazione


Quassù, proprio sotto casa mia, nei pressi del ponte sul fiume Mella, esiste un’antica chiesetta dedicata a San Giacomo al Mella, situata lungo l’antico “decumano massimo” della città, in direzione di Milano. Di origine molto antica, la chiesa faceva parte di un ospizio, gestito da una comunità di frati, demolito dopo la sua soppressione, nel corso dell’Ottocento. La chiesa è conosciuta, soprattutto, per l’abside esterno, in stile romanico, ben visibile lungo la trafficata via Milano, in corrispondenza del collegamento con la tangenziale ovest. La facciata è a capanna, con oculo al centro e portale d’ingresso molto originale, decorato da una lunetta, affrescato durante la reggenza dei Canonici di Sant’Antonio, contenente riferimenti ai Templari.
Anche in Sicilia esistono molti edifici sacri dedicati a San Giacomo, il cui culto si diffuse nell’isola subito dopo la conquista dei Normanni, tra il XII e il XIV secolo, come si desume dalle molte chiese dedicate al Santo in quell’epoca e ubicate ad Agrigento, Partinico, S. Filadelfo Marina (Acquedolci), Messina, Licata, Comiso, Capizzi e Castronovo di Sicilia.

Altri luoghi di culto per San Giacomo vennero edificati agli inizi del ‘300 a Palermo, Caccamo, Enna, Piazza Armerina, Siracusa, Ferla, Ragusa, Gela, Caltagirone, Vizzini, Mineo e Augusta. Anche se la più antica immagine di San Giacomo in Sicilia si trova presso l’oratorio di Santa Lucia di Siracusa e risale al XII secolo. Molte di queste chiese, inoltre, erano munite di hospitalia, strutture necessarie per l’accoglienza dei pellegrini, dei quali il Santo è stato da sempre il protettore. Un’ulteriore diffusione della devozione a San Giacomo si ebbe nel corso della dominazione spagnola dell’isola, durata quasi due secoli, dal 1516 al 1713.
La forte volontà di tenere viva la devozione jacopeo nella Sicilia spagnola era, probabilmente, una compensazione alle vicissitudini che in quel periodo incrinarono l’immagine dell’Apostolo in Spagna, dove, nel XVII secolo, il culto di San Giacomo si era indebolito a causa di una polemica che divideva due fazioni contrapposte.

La Spagna del ‘600 era contesa tra l’antica nobiltà, che voleva esercitare un controllo sull’operato del re e che vedeva in S. Giacomo il simbolo della grandezza ispanica nata dalla “fede e dalla spada”, e i “marrani”, costituiti da ebrei e musulmani, convertiti forzatamente al cristianesimo, che esprimevano un’aristocrazia di recente nomina regia e, quindi, solidale con il re. E fu proprio un’ebrea conversa, Teresa d’Avila, ad essere proclamata Compatrona della Spagna, nel 1627, da papa Urbano VI, con l’approvazione di Filippo IV che mise così in discussione l’antico patronato dell’Apostolo sulla Nazione.
Le proteste, dirette alla persona del re, furono molto aspre e la spaccatura del Paese fu tale che nel 1630 il papa dovette restituire a S. Giacomo il patronato unico della Spagna. Alcuni anni dopo, Filippo IV, con lettera del 30 Maggio 1643, ordinò che in tutti i suoi regni si accettasse come patrona e protettrice la Madonna, alla quale “la Maestà Sua ricorre, nei suoi bisogni, per impetrarne ausilio”. La Sicilia, di conseguenza, seguiva le vicende della “Cattolicissima Spagna”, e, quindi, in molti paesi dell’isola il patronato di San Giacomo fu sostituito da quello della Madonna ma il culto del Santo conservò sempre l’antica importanza.

Nell’iconologia più comune il Santo, in Sicilia, viene raffigurato come un pellegrino con un bastone; in molte statue ha come segno distintivo anche un cappello a larghe falde, come in quelle di Antonello Gagini, situate nel Museo Pepoli di Trapani e nel Museo Diocesano di Palermo, e in quella di Vincenzo Archifel a Caltagirone. Del XIV secolo è l’affresco recentemente ritrovato a Modica nella chiesa di S. Nicolò inferiore, che rappresenta San Giacomo con gli arti tagliati, recependo una tradizione orientale molto diversa da quella di Compostela che tradizionalmente rappresenta il Santo come matamoros, cioè nell’atto di calpestare con gli zoccoli del cavallo le teste dei mori sconfitti.

Anche il culto al Santo viene celebrato in molti centri isolani: la festa che si svolge annualmente a Caltagirone, fra il 23 e il 25 luglio, dove il braccio reliquiario viene portato in processione dentro l’imponente cassa argentea, e migliaia di coppi in “carta briglia” vengono accesi simultaneamente dai fedeli con un bastoncino a lenta combustione (buceddu) formando suggestive immagini sulla celebre scala di S. Maria del Monte. In altri paesi la festa del Santo è stata spostata in diverse date: a Gratteri viene celebrata l’8 e il 9 settembre, per consentire la fine dei lavori di mietitura; a Geraci, dove viene unita a quella di San Bartolomeo, il 24 agosto. A Cammarata, fino alla fine dell’800, la confraternita di San Giacomo aveva un pesantissimo gonfalone che era causa di continue e violente contese, finché l’arciprete Manno, irritato dal comportamento dei confrati, lo calpestò e lo distrusse per sempre.
Una reliquia della giuntura del dito di San Giacomo era attestata a Capizzi, nel 1431, ma nel 1435 essa fu trasferita a Messina scatenando l’ira della popolazione, che tutt’ora, il 26 luglio di ogni anno, usa il fercolo del Santo come ariete per distruggere un muro che in origine rappresentava la casa di Sancho Heredia, colpevole di aver eseguito il perentorio ordine del re Alfonso il Magnanimo. A Sclafani, un tempo, vi erano profondi contrasti tra la confraternita di San Giacomo e quella di San Filippo circa l’ordine con il quale dovevano uscire in processione, finché nel 1623, le due confraternite rivali, si piegarono a un vero e proprio “atto di concordia” davanti a un notaio. Esistono tuttora in Sicilia sette Confraternite intitolate a San Giacomo, tutte penitenziali, quella di Camaro, presso Messina, ha perfino creato un apposito museo.

Ed i confrati, in passato, non esitavano ad affrontare anche sofferenze fisiche: nella sagrestia della Chiesa Madre di Castiglione è tuttora conservata la “pietra al collo” (‘a petra ‘o coddu), una grande pietra lavica del peso di 8 Kg, dotata di un foro in cui fare passare la corda, che i confrati in penitenza si legavano al collo, facendo il giro di tre altari, percuotendosi con una catena e recitando il mea culpa. Giuseppe Pitrè riferisce la credenza che l’anima dopo la morte dovesse andare in Galizia e salire in cielo per il violu di San Jabbicu, cioè la Via Lattea. Dalla rivolta antispagnola del 1674 in poi, durante la processione del 25 luglio a Messina, iniziò la consuetudine di togliere la statua del Santo dal fercolo e, in segno di sottomissione, di sostituirla con una teca con un capello della Madonna: era un segno del cambiamento dei tempi e la sostituzione avviene tuttora, ogni anno.

Dopo la fine del regime spagnolo e il conseguente declino del culto del Santo, alcune di queste chiese cambiarono nome o furono abbandonate, e le statue furono trasferite altrove. In Sicilia sono numerose le chiese dedicate a San Giacomo, spesso sorgono nella piazza principale, se è il patrono del paese, altre, invece, sono state costruite fuori dai centri abitati per accogliere i pellegrini in viaggio verso Compostela. Del complesso sistema di assistenza ai pellegrini in transito lungo gli itinerari peregrinorum medievali, erano parte integrante gli ospedali; quello di Licata è tuttora intitolato a San Giacomo di Altopascio, mentre a Palermo, la facciata dell’ex ospedale di San Giacomo, oggi Legione dei Carabinieri, a Piazza della Vittoria, è decorata da grandi conchiglie scolpite, simbolo del Santo. Ed è rispettato anche il tradizionale collegamento del Santo con gli eserciti (in Corso Pisani esiste anche la parrocchia di San Giacomo dei Militari). A Palma di Montechiaro una delle sale del palazzo ducale dei Tomasi era dedicata a San Giacomo. Il ritratto di Giulio Tomasi, il celebre “Duca Santo” del Gattopardo, cavaliere di San Giacomo, tuttora esistente nella cattedrale di Palma, è insignito della spada rossa dell’Ordine.

Il viaggio a Compostela, in onore di San Giacomo, era molto faticoso ed estremamente pericoloso a causa dei tanti malviventi che lungo il percorso depredavano i pellegrini dei loro beni. Ma, nonostante ciò, la figura del pellegrino vicario, d’una persona che si metteva in cammino dietro compenso di denaro elargito dal penitente che così espiava i suoi peccati, contemplato anche dalla liturgia penitenziale, era molto diffusa nel Medioevo.
Nel 1402 Eleonora d’Aragona dispose nel suo testamento di mandare a tale scopo tre persone a Compostela, ed è esemplare il caso del possidente termitano Giacomo de Aricio che nel 1436 obbligava le figlie per testamento a pagare un pellegrino perché andasse a Santiago in sua vece per sciogliere un voto da lui non adempiuto per negligenza.
Inoltre, era possibile sostituire Compostela con una meta siciliana. Per evitare le miriadi di spade affilate su cui pensavano di dover camminare nell’aldilà, i devoti camminavano a piedi scalzi sui sassi dei greti dei fiumi: era il dolorosissimo “viaggiu a San Jabbicu”, che fino a 50 anni fa si compiva presso Modica e altre località siciliane.
Molte le credenze e le superstizioni legate al Santo: a Messina le mamme fanno passare i bimbi fra i piedi del fercolo perché credono che in tal modo cammineranno presto.  Un’antica leggenda narra di un galletto che era stato cucinato da un oste ma era “risorto” grazie a San Giacomo per dimostrare l’innocenza di un pellegrino diretto a Santiago che era stato accusato ingiustamente di furto e impiccato dopo aver rifiutato le profferte amorose della figlia dell’oste. Per ricordare l’evento, fino agli anni ’30, sulle mura esterne della chiesa di San Giacomo a Geraci Siculo, si appendevano dei galletti vivi che divenivano il bersaglio di tiratori armati di sassi. Il povero galletto, così miseramente lapidato, veniva poi mangiato in famiglia per devozione a San Giacomo.

Angelo Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it





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