Quassù, proprio
sotto casa mia, nei pressi del ponte sul fiume Mella, esiste un’antica
chiesetta dedicata a San Giacomo al Mella, situata lungo l’antico
“decumano massimo” della città, in direzione di Milano. Di origine
molto antica, la chiesa faceva parte di un ospizio, gestito da una
comunità di frati, demolito dopo la sua soppressione, nel corso
dell’Ottocento. La chiesa è conosciuta, soprattutto, per l’abside
esterno, in stile romanico, ben visibile lungo la trafficata via
Milano, in corrispondenza del collegamento con la tangenziale ovest. La
facciata è a capanna, con oculo al centro e portale d’ingresso molto
originale, decorato da una lunetta, affrescato durante la reggenza dei
Canonici di Sant’Antonio, contenente riferimenti ai Templari.
Anche in Sicilia esistono molti edifici sacri dedicati a San Giacomo,
il cui culto si diffuse nell’isola subito dopo la conquista dei
Normanni, tra il XII e il XIV secolo, come si desume dalle molte chiese
dedicate al Santo in quell’epoca e ubicate ad Agrigento, Partinico, S.
Filadelfo Marina (Acquedolci), Messina, Licata, Comiso, Capizzi e
Castronovo di Sicilia.
Altri luoghi di culto per San Giacomo vennero edificati agli inizi del
‘300 a Palermo, Caccamo, Enna, Piazza Armerina, Siracusa, Ferla,
Ragusa, Gela, Caltagirone, Vizzini, Mineo e Augusta. Anche se la più
antica immagine di San Giacomo in Sicilia si trova presso l’oratorio di
Santa Lucia di Siracusa e risale al XII secolo. Molte di queste chiese,
inoltre, erano munite di hospitalia, strutture necessarie per
l’accoglienza dei pellegrini, dei quali il Santo è stato da sempre il
protettore. Un’ulteriore diffusione della devozione a San Giacomo si
ebbe nel corso della dominazione spagnola dell’isola, durata quasi due
secoli, dal 1516 al 1713.
La forte volontà di tenere viva la devozione jacopeo nella Sicilia
spagnola era, probabilmente, una compensazione alle vicissitudini che
in quel periodo incrinarono l’immagine dell’Apostolo in Spagna, dove,
nel XVII secolo, il culto di San Giacomo si era indebolito a causa di
una polemica che divideva due fazioni contrapposte.
La Spagna del ‘600 era contesa tra l’antica nobiltà, che voleva
esercitare un controllo sull’operato del re e che vedeva in S. Giacomo
il simbolo della grandezza ispanica nata dalla “fede e dalla spada”, e
i “marrani”, costituiti da ebrei e musulmani, convertiti forzatamente
al cristianesimo, che esprimevano un’aristocrazia di recente nomina
regia e, quindi, solidale con il re. E fu proprio un’ebrea conversa,
Teresa d’Avila, ad essere proclamata Compatrona della Spagna, nel 1627,
da papa Urbano VI, con l’approvazione di Filippo IV che mise così in
discussione l’antico patronato dell’Apostolo sulla Nazione.
Le proteste, dirette alla persona del re, furono molto aspre e la
spaccatura del Paese fu tale che nel 1630 il papa dovette restituire a
S. Giacomo il patronato unico della Spagna. Alcuni anni dopo, Filippo
IV, con lettera del 30 Maggio 1643, ordinò che in tutti i suoi regni si
accettasse come patrona e protettrice la Madonna, alla quale “la Maestà
Sua ricorre, nei suoi bisogni, per impetrarne ausilio”. La Sicilia, di
conseguenza, seguiva le vicende della “Cattolicissima Spagna”, e,
quindi, in molti paesi dell’isola il patronato di San Giacomo fu
sostituito da quello della Madonna ma il culto del Santo conservò
sempre l’antica importanza.
Nell’iconologia più comune il Santo, in Sicilia, viene raffigurato come
un pellegrino con un bastone; in molte statue ha come segno distintivo
anche un cappello a larghe falde, come in quelle di Antonello Gagini,
situate nel Museo Pepoli di Trapani e nel Museo Diocesano di Palermo, e
in quella di Vincenzo Archifel a Caltagirone. Del XIV secolo è
l’affresco recentemente ritrovato a Modica nella chiesa di S. Nicolò
inferiore, che rappresenta San Giacomo con gli arti tagliati, recependo
una tradizione orientale molto diversa da quella di Compostela che
tradizionalmente rappresenta il Santo come matamoros, cioè nell’atto di
calpestare con gli zoccoli del cavallo le teste dei mori sconfitti.
Anche il culto al Santo viene celebrato in molti centri isolani: la
festa che si svolge annualmente a Caltagirone, fra il 23 e il 25
luglio, dove il braccio reliquiario viene portato in processione dentro
l’imponente cassa argentea, e migliaia di coppi in “carta briglia”
vengono accesi simultaneamente dai fedeli con un bastoncino a lenta
combustione (buceddu) formando suggestive immagini sulla celebre scala
di S. Maria del Monte. In altri paesi la festa del Santo è stata
spostata in diverse date: a Gratteri viene celebrata l’8 e il 9
settembre, per consentire la fine dei lavori di mietitura; a Geraci,
dove viene unita a quella di San Bartolomeo, il 24 agosto. A Cammarata,
fino alla fine dell’800, la confraternita di San Giacomo aveva un
pesantissimo gonfalone che era causa di continue e violente contese,
finché l’arciprete Manno, irritato dal comportamento dei confrati, lo
calpestò e lo distrusse per sempre.
Una reliquia della giuntura del dito di San Giacomo era attestata a
Capizzi, nel 1431, ma nel 1435 essa fu trasferita a Messina scatenando
l’ira della popolazione, che tutt’ora, il 26 luglio di ogni anno, usa
il fercolo del Santo come ariete per distruggere un muro che in origine
rappresentava la casa di Sancho Heredia, colpevole di aver eseguito il
perentorio ordine del re Alfonso il Magnanimo. A Sclafani, un tempo, vi
erano profondi contrasti tra la confraternita di San Giacomo e quella
di San Filippo circa l’ordine con il quale dovevano uscire in
processione, finché nel 1623, le due confraternite rivali, si piegarono
a un vero e proprio “atto di concordia” davanti a un notaio. Esistono
tuttora in Sicilia sette Confraternite intitolate a San Giacomo, tutte
penitenziali, quella di Camaro, presso Messina, ha perfino creato un
apposito museo.
Ed i confrati, in passato, non esitavano ad affrontare anche sofferenze
fisiche: nella sagrestia della Chiesa Madre di Castiglione è tuttora
conservata la “pietra al collo” (‘a petra ‘o coddu), una grande pietra
lavica del peso di 8 Kg, dotata di un foro in cui fare passare la
corda, che i confrati in penitenza si legavano al collo, facendo il
giro di tre altari, percuotendosi con una catena e recitando il mea
culpa. Giuseppe Pitrè riferisce la credenza che l’anima dopo la morte
dovesse andare in Galizia e salire in cielo per il violu di San
Jabbicu, cioè la Via Lattea. Dalla rivolta antispagnola del 1674 in
poi, durante la processione del 25 luglio a Messina, iniziò la
consuetudine di togliere la statua del Santo dal fercolo e, in segno di
sottomissione, di sostituirla con una teca con un capello della
Madonna: era un segno del cambiamento dei tempi e la sostituzione
avviene tuttora, ogni anno.
Dopo la fine del regime spagnolo e il conseguente declino del culto del
Santo, alcune di queste chiese cambiarono nome o furono abbandonate, e
le statue furono trasferite altrove. In Sicilia sono numerose le chiese
dedicate a San Giacomo, spesso sorgono nella piazza principale, se è il
patrono del paese, altre, invece, sono state costruite fuori dai centri
abitati per accogliere i pellegrini in viaggio verso Compostela. Del
complesso sistema di assistenza ai pellegrini in transito lungo gli
itinerari peregrinorum medievali, erano parte integrante gli ospedali;
quello di Licata è tuttora intitolato a San Giacomo di Altopascio,
mentre a Palermo, la facciata dell’ex ospedale di San Giacomo, oggi
Legione dei Carabinieri, a Piazza della Vittoria, è decorata da grandi
conchiglie scolpite, simbolo del Santo. Ed è rispettato anche il
tradizionale collegamento del Santo con gli eserciti (in Corso Pisani
esiste anche la parrocchia di San Giacomo dei Militari). A Palma di
Montechiaro una delle sale del palazzo ducale dei Tomasi era dedicata a
San Giacomo. Il ritratto di Giulio Tomasi, il celebre “Duca Santo” del
Gattopardo, cavaliere di San Giacomo, tuttora esistente nella
cattedrale di Palma, è insignito della spada rossa dell’Ordine.
Il viaggio a Compostela, in onore di San Giacomo, era molto faticoso ed
estremamente pericoloso a causa dei tanti malviventi che lungo il
percorso depredavano i pellegrini dei loro beni. Ma, nonostante ciò, la
figura del pellegrino vicario, d’una persona che si metteva in cammino
dietro compenso di denaro elargito dal penitente che così espiava i
suoi peccati, contemplato anche dalla liturgia penitenziale, era molto
diffusa nel Medioevo.
Nel 1402 Eleonora d’Aragona dispose nel suo testamento di mandare a
tale scopo tre persone a Compostela, ed è esemplare il caso del
possidente termitano Giacomo de Aricio che nel 1436 obbligava le figlie
per testamento a pagare un pellegrino perché andasse a Santiago in sua
vece per sciogliere un voto da lui non adempiuto per negligenza.
Inoltre, era possibile sostituire Compostela con una meta siciliana.
Per evitare le miriadi di spade affilate su cui pensavano di dover
camminare nell’aldilà, i devoti camminavano a piedi scalzi sui sassi
dei greti dei fiumi: era il dolorosissimo “viaggiu a San Jabbicu”, che
fino a 50 anni fa si compiva presso Modica e altre località siciliane.
Molte le credenze e le superstizioni legate al Santo: a Messina le
mamme fanno passare i bimbi fra i piedi del fercolo perché credono che
in tal modo cammineranno presto. Un’antica leggenda narra di un
galletto che era stato cucinato da un oste ma era “risorto” grazie a
San Giacomo per dimostrare l’innocenza di un pellegrino diretto a
Santiago che era stato accusato ingiustamente di furto e impiccato dopo
aver rifiutato le profferte amorose della figlia dell’oste. Per
ricordare l’evento, fino agli anni ’30, sulle mura esterne della chiesa
di San Giacomo a Geraci Siculo, si appendevano dei galletti vivi che
divenivano il bersaglio di tiratori armati di sassi. Il povero
galletto, così miseramente lapidato, veniva poi mangiato in famiglia
per devozione a San Giacomo.
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it