Poesia dentro il carcere. Pasquale Musarra a Favignana
Data: Venerdì, 25 ottobre 2013 ore 08:00:00 CEST
Argomento: Redazione


Messina, 7 ottobre 2012. Appena ricevuto "Matelica", il libro di poesie del mio amico, Pasquale Musarra, mi arriva l’invito di un lettore: "Perché non portiamo in carcere queste poesie? Magari per Natale!". Mi acciglio, rifiuto l’idea,… "Poesia in carcere a Natale!? Mi sa di regalo, mi sa di… umano,… troppo umano!". Poi ci ripenso, e le poesie di Musarra, insieme a noi, entrano al supercarcere di Favignana. E inizia una meravigliosa avventura…
 
«Per mestiere apro e chiudo cancelli, e per molti anni ne ho chiusi tanti. Ed ho passato molte ore in carcere, anche giornate intere, a verbalizzare interrogatori, a raccogliere parole contro il tempo, a cercare di carpire le visioni oltre gli occhi di chi avevo davanti, a studiare ogni solco delle mani, i movimenti, ad eludere gli sguardi che cercano giustificazione. Ho custodito lungamente la contabilità di quelle ore e di quel tempo tolto al mondo. E ho preteso un pareggio! Adesso, rivoglio indietro parole e tempo, anche per loro, per quelli che hanno passato quei cancelli. E tocca a loro ridarmi quelle parole, scritte sulle mani e dietro gli occhi». Inizia così la “confessione” di chi, per “professione e per passione”, lavora gomito a gomito con carcerati ed ergastolani. Che tocca con mano, ogni giorno, la pena di vivere e la sofferenza di uomini “soli”, ma mai abituati alla solitudine, di uomini che oltre le sbarre, le sentenze e le richieste, cercano ancora il calore dei ricordi e dei sorrisi. «Che senso ha la pena senza valore!? – chiosa Francesca Cannavò, che, come Beatrice con Dante, ci accompagna laggiù,… nel paradiso dei vinti. Pena è remunerazione e riabilitazione. Coercizione e educazione. Severità e benignità. E giustizia… umana! – Condurrò il poeta in carcere, ma non in uno di quelli dinamici, di passaggio, dove si stivano penitenti “in attesa di giudizio”! No. Il luogo della pena sarà quello del tempo anomalo, voluto dalla norma, un’isola del tempo, circondata da mura di cemento. Favignana, l’isola del tempo perduto». La casa di reclusione, sita nella suggestiva isola del mar Mediterraneo, è nuova di zecca, costruita da appena due anni, e se non fosse per le telecamere ed i cancelli blindati parrebbe uno dei tanti resort di lusso presenti dell’isola, anche all’interno l’atmosfera non cambia, appare come un carcere a “5 stelle”, ed in realtà lo è! Profuma ancora di nuovo e di pulito, non si avverte l’odore dei pasti cucinati per il pranzo, i muri non raccontano nulla, i rumori soffusi, non rimanda il ritmo consueto del biliardino nell’ora d’aria, la luce prepotente e bianca dell’isola penetra dalle vetrate e dal cortile interno come irriverente provocazione. «Penso che la storia ha avuto molta paura delle idee, non posso fare a meno di pensarlo, i carceri che ho varcato sono stati tutti super, Palmi, Messina, Favignana». Silenzio, adesso si entra. «Ci accoglie una leggera concitazione, gli agenti di custodia lanciano sguardi disincantati, quasi a voler dire, che tanto… Espletano con calma le incombenze per la sicurezza, controlli e perquisizioni, mi sento leggermente spiazzata, prima entravo in carcere come andare al bar,… ma stavolta sembra tutto diverso…». Chi dice Favignana dice carcere, come l’Elba, l’Asinara, chi dice carcere di Favignana dice Borboni, tiranni, tempi cupi, addirittura nell’isola campeggiano due castelli, due fortezze, per chi andava annientato, nel fisico e nel ricordo. «La storia, da noi, ha avuto bisogno di supercarceri, e qui tutt’attorno hanno fatto un muro di cemento più armato delle forze che vi custodiva. La sala destinata all’incontro è grande con un palcoscenico in fondo, scegliamo di eliminare il tavolo adibito a cattedra per non creare barriere, in fondo siamo lì per esporci, certo non perché siamo più buoni, o perché ogni tanto ci ricordiamo di loro, siamo qui per cercare uomini, per cercare le loro parole recluse, e per tradurle. Ad un tratto fa il suo ingresso in sala un piccolo “plotone” disordinato, con fare disincantato e sicuro, come quelli che si sentono a casa e per dovere di cortesia fanno finta di essere interessati, siedono ordinati sulle sedie schierate nelle fila predisposte dall’ordinamento. Sono eterogenei: giovani, vecchi, neri, magri, alti, muscolosi, raffreddati, vispi, ragazzi: un piccolo numero, ma è solo il 30 per cento, ci dicono gli educatori. Nella calma concitazione dei preparativi non si distinguono bene i ruoli, ci si scruta a vicenda come per capire come bisogna difendersi o come attaccarci… mi sembra reciproca la cosa e già mi piace l’atmosfera, mi rinfranca, il timore della mattina comincia ad abbandonarmi, sento che in quella sala non ci sarà posto per l’indifferenza. Poi… inizia la musica, per amalgamare, per rasserenare, per confortare… poi le presentazioni e le precisazioni: il poeta non vuol essere chiamato poeta! E i criminali non vogliono essere chiamati criminali!». Intanto, decolla la conversazione… «Cominciamo a metterci sullo stesso piano! Si tira giù la maschera… adesso siamo pronti. E lui, il poeta-recluso, lo sa bene, lo aveva capito, vuole restare invisibile, dare le sue parole senza nome, leggere ciò che fa più male! Ma anche il poeta, a breve, sarà spiazzato, non resiste alla radiografia delle sue parole ed affonda, chiede di non giocare con la loro mente…». Poi è un susseguirsi di domande accennate, di risposte cercate,… indizi di storia, di vita. «E poi ci sono loro, sempre loro! Li scopro… lo so. Li ho letti tante volte nelle lettere, nelle istanze, nelle intercettazioni… Gli amanti più appassionati della libertà stanno in carcere, lo confermeranno di lì a poco, “Cosa giusta è essere come si vuole”. Ho trovato più poesia nelle confessioni di un assassino che in un’intera antologia; ma anche la poesia è una pena che vale, anche la poesia ha un fine pena. E i poeti lo sanno». Vengono in soccorso le parole… «Si comincia a trovare un linguaggio comune, strano, come i pazzi (o poeti) che parlano alla luna, o come i pazzi che parlano ad un sasso! E poi il dialetto… che accomuna, conforta, compiace… anche agli africani. Dall’Africa vengono le parole in arabo, l’intero alfabeto recitato che sembra musica o preghiera… Alfine si parla anche di Dio e della felicità! In carcere si riesce a parlare di felicità!? Ma in carcere tutti ne parlano, e tutti la cercano… la felicità!». Anche la disposizione fisica viene destrutturata nello spazio e nel tempo rimasto. «Le sedie rompono le schiere, inizia la danza, dapprima uno per volta,… poi tutti insieme a formare un cerchio, senza ruoli, né demarcazioni, solo scambio, rimbalzi, moltiplicazioni». Anche la musica ci mette del suo! Non poteva essere altrimenti! E la chiamiamo solo musica!? La voce di Anita, “dono di sé prezioso”. Riceve ricompense di lacrime nascoste… Let it be. E così sia! «Lasciamo che siano lacrime e sorrisi e sguardi persi che si allontanano e chitarra sublime e mani che cantano. E’ energia vibrante quella che intreccia corde di sguardi e parole, parole forti, per nulla compiacenti, pacche robuste sulle spalle, come quelle che scuotono il dolore, il rimorso, la morte… e pretendono risposta… reciproche». Ma il tempo vola! Come si fa a continuare!? «Incalzano i respiri e gli interventi, disciplinati, rispettosi, veementi». Arrivano, persino, gli inviti. «Restate a pranzo con noi! – Non è possibile, occorrono autorizzazioni superiori. Bisogna andare. Tutto è finito!». La musica, ancora una volta, accorre, viene incontro, unisce per separare. «Tornate, noi qui sempre,… come facciamo a volerlo? – Si può, chiedetelo, verremo ancora. Non basta bastarsi. Vanno, andiamo. Fuori noi. Dentro loro. All’uscita dimentichiamo di riprendere i documenti lasciati all’ingresso, la nostra identità per un attimo è sospesa fra dentro e fuori… Penso, ancora una volta, col mare di un azzurro spietato in faccia, che chi ha guardato negli occhi un assassino è reo di pena, di una pena che vale!».  Il poeta si ritornerà ancora a Favignana,… ne vale la pena!

Colloquio con Francesca Cannavò





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