Messina, 7
ottobre 2012. Appena ricevuto "Matelica", il
libro di poesie del mio amico, Pasquale
Musarra, mi arriva l’invito di un lettore: "Perché non portiamo
in carcere queste poesie? Magari per Natale!". Mi acciglio, rifiuto
l’idea,… "Poesia in carcere a Natale!? Mi sa di regalo, mi sa di…
umano,… troppo umano!". Poi ci ripenso, e le poesie di Musarra, insieme
a noi, entrano al supercarcere di Favignana. E inizia una meravigliosa
avventura…
«Per mestiere apro e chiudo cancelli, e per molti anni ne ho chiusi
tanti. Ed ho passato molte ore in carcere, anche giornate intere, a
verbalizzare interrogatori, a raccogliere parole contro il tempo, a
cercare di carpire le visioni oltre gli occhi di chi avevo davanti, a
studiare ogni solco delle mani, i movimenti, ad eludere gli sguardi che
cercano giustificazione. Ho custodito lungamente la contabilità di
quelle ore e di quel tempo tolto al mondo. E ho preteso un pareggio!
Adesso, rivoglio indietro parole e tempo, anche per loro, per quelli
che hanno passato quei cancelli. E tocca a loro ridarmi quelle parole,
scritte sulle mani e dietro gli occhi». Inizia così la “confessione” di
chi, per “professione e per passione”, lavora gomito a gomito con
carcerati ed ergastolani. Che tocca con mano, ogni giorno, la pena di
vivere e la sofferenza di uomini “soli”, ma mai abituati alla
solitudine, di uomini che oltre le sbarre, le sentenze e le richieste,
cercano ancora il calore dei ricordi e dei sorrisi. «Che senso ha la
pena senza valore!? – chiosa Francesca Cannavò, che, come Beatrice con
Dante, ci accompagna laggiù,… nel paradiso dei vinti. Pena è
remunerazione e riabilitazione. Coercizione e educazione. Severità e
benignità. E giustizia… umana! – Condurrò il poeta in carcere, ma non
in uno di quelli dinamici, di passaggio, dove si stivano penitenti “in
attesa di giudizio”! No. Il luogo della pena sarà quello del tempo
anomalo, voluto dalla norma, un’isola del tempo, circondata da mura di
cemento. Favignana, l’isola del tempo perduto». La casa di reclusione,
sita nella suggestiva isola del mar Mediterraneo, è nuova di zecca,
costruita da appena due anni, e se non fosse per le telecamere ed i
cancelli blindati parrebbe uno dei tanti resort di lusso presenti
dell’isola, anche all’interno l’atmosfera non cambia, appare come un
carcere a “5 stelle”, ed in realtà lo è! Profuma ancora di nuovo e di
pulito, non si avverte l’odore dei pasti cucinati per il pranzo, i muri
non raccontano nulla, i rumori soffusi, non rimanda il ritmo consueto
del biliardino nell’ora d’aria, la luce prepotente e bianca dell’isola
penetra dalle vetrate e dal cortile interno come irriverente
provocazione. «Penso che la storia ha avuto molta paura delle idee, non
posso fare a meno di pensarlo, i carceri che ho varcato sono stati
tutti super, Palmi, Messina, Favignana». Silenzio, adesso si entra. «Ci
accoglie una leggera concitazione, gli agenti di custodia lanciano
sguardi disincantati, quasi a voler dire, che tanto… Espletano con
calma le incombenze per la sicurezza, controlli e perquisizioni, mi
sento leggermente spiazzata, prima entravo in carcere come andare al
bar,… ma stavolta sembra tutto diverso…». Chi dice Favignana dice
carcere, come l’Elba, l’Asinara, chi dice carcere di Favignana dice
Borboni, tiranni, tempi cupi, addirittura nell’isola campeggiano due
castelli, due fortezze, per chi andava annientato, nel fisico e nel
ricordo. «La storia, da noi, ha avuto bisogno di supercarceri, e qui
tutt’attorno hanno fatto un muro di cemento più armato delle forze che
vi custodiva. La sala destinata all’incontro è grande con un
palcoscenico in fondo, scegliamo di eliminare il tavolo adibito a
cattedra per non creare barriere, in fondo siamo lì per esporci, certo
non perché siamo più buoni, o perché ogni tanto ci ricordiamo di loro,
siamo qui per cercare uomini, per cercare le loro parole recluse, e per
tradurle. Ad un tratto fa il suo ingresso in sala un piccolo “plotone”
disordinato, con fare disincantato e sicuro, come quelli che si sentono
a casa e per dovere di cortesia fanno finta di essere interessati,
siedono ordinati sulle sedie schierate nelle fila predisposte
dall’ordinamento. Sono eterogenei: giovani, vecchi, neri, magri, alti,
muscolosi, raffreddati, vispi, ragazzi: un piccolo numero, ma è solo il
30 per cento, ci dicono gli educatori. Nella calma concitazione dei
preparativi non si distinguono bene i ruoli, ci si scruta a vicenda
come per capire come bisogna difendersi o come attaccarci… mi sembra
reciproca la cosa e già mi piace l’atmosfera, mi rinfranca, il timore
della mattina comincia ad abbandonarmi, sento che in quella sala non ci
sarà posto per l’indifferenza. Poi… inizia la musica, per amalgamare,
per rasserenare, per confortare… poi le presentazioni e le
precisazioni: il poeta non vuol essere chiamato poeta! E i criminali
non vogliono essere chiamati criminali!». Intanto, decolla la
conversazione… «Cominciamo a metterci sullo stesso piano! Si tira giù
la maschera… adesso siamo pronti. E lui, il poeta-recluso, lo sa bene,
lo aveva capito, vuole restare invisibile, dare le sue parole senza
nome, leggere ciò che fa più male! Ma anche il poeta, a breve, sarà
spiazzato, non resiste alla radiografia delle sue parole ed affonda,
chiede di non giocare con la loro mente…». Poi è un susseguirsi di
domande accennate, di risposte cercate,… indizi di storia, di vita. «E
poi ci sono loro, sempre loro! Li scopro… lo so. Li ho letti tante
volte nelle lettere, nelle istanze, nelle intercettazioni… Gli amanti
più appassionati della libertà stanno in carcere, lo confermeranno di
lì a poco, “Cosa giusta è essere come si vuole”. Ho trovato più poesia
nelle confessioni di un assassino che in un’intera antologia; ma anche
la poesia è una pena che vale, anche la poesia ha un fine pena. E i
poeti lo sanno». Vengono in soccorso le parole… «Si comincia a trovare
un linguaggio comune, strano, come i pazzi (o poeti) che parlano alla
luna, o come i pazzi che parlano ad un sasso! E poi il dialetto… che
accomuna, conforta, compiace… anche agli africani. Dall’Africa vengono
le parole in arabo, l’intero alfabeto recitato che sembra musica o
preghiera… Alfine si parla anche di Dio e della felicità! In carcere si
riesce a parlare di felicità!? Ma in carcere tutti ne parlano, e tutti
la cercano… la felicità!». Anche la disposizione fisica viene
destrutturata nello spazio e nel tempo rimasto. «Le sedie rompono le
schiere, inizia la danza, dapprima uno per volta,… poi tutti insieme a
formare un cerchio, senza ruoli, né demarcazioni, solo scambio,
rimbalzi, moltiplicazioni». Anche la musica ci mette del suo! Non
poteva essere altrimenti! E la chiamiamo solo musica!? La voce di
Anita, “dono di sé prezioso”. Riceve ricompense di lacrime nascoste…
Let it be. E così sia! «Lasciamo che siano lacrime e sorrisi e sguardi
persi che si allontanano e chitarra sublime e mani che cantano. E’
energia vibrante quella che intreccia corde di sguardi e parole, parole
forti, per nulla compiacenti, pacche robuste sulle spalle, come quelle
che scuotono il dolore, il rimorso, la morte… e pretendono risposta…
reciproche». Ma il tempo vola! Come si fa a continuare!? «Incalzano i
respiri e gli interventi, disciplinati, rispettosi, veementi».
Arrivano, persino, gli inviti. «Restate a pranzo con noi! – Non è
possibile, occorrono autorizzazioni superiori. Bisogna andare. Tutto è
finito!». La musica, ancora una volta, accorre, viene incontro, unisce
per separare. «Tornate, noi qui sempre,… come facciamo a volerlo? – Si
può, chiedetelo, verremo ancora. Non basta bastarsi. Vanno, andiamo.
Fuori noi. Dentro loro. All’uscita dimentichiamo di riprendere i
documenti lasciati all’ingresso, la nostra identità per un attimo è
sospesa fra dentro e fuori… Penso, ancora una volta, col mare di un
azzurro spietato in faccia, che chi ha guardato negli occhi un
assassino è reo di pena, di una pena che vale!». Il poeta si
ritornerà ancora a Favignana,… ne vale la pena!
Colloquio con Francesca Cannavò