L’abolizione del valore legale del titolo di studio mette a rischio la coesione sociale, crea dubbie agenzie di valutazione, svantaggia gli svantaggia
Data: Martedì, 31 gennaio 2012 ore 09:30:00 CET
Argomento: Opinioni


Gli annunciati provvedimenti sulla abolizione del valore legale del titolo di studio e altre operazioni, meno note al grande pubblico ma a questa collegate, hanno provocato la riapertura del dibattito sull’Università italiana e sulle sue prospettive. Per la verità se ne sentiva il bisogno; la stessa riforma Gelmini dello scorso anno era passata pur tra mille proteste, ma senza un approfondimento. Il mondo dell’istruzione, non si sa per quale arcano motivo, appare difficilmente decifrabile da chi avrebbe il compito di informare il pubblico. Su di esso in genere prevalgono giudizi affrettati e stereotipati, talvolta condivisi da tutte le parti politiche e tutte le fonti di informazione con poche eccezioni. Forse stiamo assistendo a una inversione di tendenza.
La tendenza generale che accomuna le linee di sviluppo delle politiche scolastiche degli ultimi anni, con maggiori accentuazioni a destra, ma con importanti contributi forniti dalla sinistra, si può leggere come un processo di alleggerimento dell’impegno statale nel settore dell’istruzione. “Alleggerimento” può anche essere un eufemismo che tuttavia trova conferma innanzi tutto nella spesa pubblica sempre decrescente per l’istruzione, dalle “riforme a costo zero” di Berlinguer ai tagli selvaggi di Gelmini e Brunetta non contraddetti dall’attuale governo.
L’abolizione del valore legale dei titoli di studio è l’ultimo, per ora, passaggio di questo processo che andrebbe interpretato come una presa d’atto da parte dello stesso stato della impossibilità di garantire sulla qualità dei titoli. E’ una ritirata in buon ordine rispetto al lungo e importante processo di costruzione della statualità durato per circa un secolo e mezzo a partire dall’unificazione italiana. Lo stato in questo settore dell’istruzione e della ricerca non si è limitato a stabilire regole entro le quali i soggetti interessati avrebbero dovuto muoversi, ma ha ritenuto di dover provvedere direttamente a creare scuole di ogni ordine e grado, centri di ricerca, università. Si è trattato di offrire opportunità a tutte le parti del Paese, a tutti i ceti sociali. Lo stato dunque provvedeva a istituire le scuole e poi garantiva sulla bontà del prodotto assegnando un valore legale al titolo di studio da esse rilasciato. Questo poteva avvenire con un processo che manteneva una tendenziale omogeneità nei programmi insegnati, nella qualità degli insegnanti, nei meccanismi di reclutamento (concorsi), nella stabilizzazione del personale insegnante e addetto alla ricerca, garanzia non ultima di libertà nell’insegnamento e nella ricerca . Era un grande progetto di nazionalizzazione che investiva tutto il Paese, dalle aree più favorite, a quelle meno favorite e marginali. Ragioni di spazio mi obbligano a semplificare, e tuttavia è innegabile che il risultato è stato quello di accompagnare un ampio processo di democratizzazione, sostenuto da una vertiginosa crescita economica. La Repubblica con l’articolo tre della Costituzione si è impegnata a garantire l’eguaglianza tra i cittadini, perfino rimuovendo gli ostacoli che ancora avrebbero potuto impedirla. In qualche modo  il perseguimento di un progetto di uguaglianza ha “fruttato” sviluppo economico e coesione sociale.
Il tema della coesione sociale merita una breve osservazione. E’ stata la scuola pubblica e laica a dare un importante contributo per ha evitare che l’Italia corresse il rischio che alle contrapposizioni politiche si sovrapponessero le divisioni religiose aggravando la conflittualità fino a renderla ingovernabile, come purtroppo avviene nei paesi in cui i linguaggi religiosi sopravanzano e sostituiscono la politica. Il paese del papato era per forza di cose soggetto a tensioni e sollecitazioni particolarmente forti in questo campo, accentuate negli anni dai processi di democratizzazione. L’avere stabilito un terreno di confronto comune per tutti, pur con la concessione di un forte vantaggio alla educazione cattolica, è stato certamente un fatto importante, di dialogo e di comprensione tra opinioni e credenze diverse presenti nel Paese. Il tenore della scuola pubblica ha influenzato positivamente anche quella privata e confessionale. Il valore legale del titolo di studio, (così come l’assunzione attraverso i pubblici concorsi) ha costituito un format valido per tutti a cui tutti dovevano adeguarsi, ha fornito un linguaggio comune.
La sua abolizione ci riporta nella galassia delle diverse condizioni di partenza: sociali, territoriali, di credenza religiosa. Ciò interviene in un Paese che ha visto in questi ultimi anni allargarsi le differenze tra Nord e Sud, che ha cominciato ad affrontare il problema della immigrazione con grande difficoltà dovuta alla progressiva messa in disarmo della scuola, possibile luogo di socializzazione, oltre che di istruzione come è stata al tempo della Pubblica Istruzione.
L’abolizione del valore legale del titolo di studio rimette in discussione per intero il processo di edificazione del “sistema Paese”, come si diceva, mette a rischio il livello di coesione sociale attualmente raggiunto, rischia di creare agenzie di valutazione, come ne stanno sorgendo, affidate a privati e svincolate da controlli che possano assicurare un grado minimo di omogeneità necessario alla comunicazione e al funzionamento di sistemi complessi. Svantaggia gli svantaggiati allargando la distanza tra i ceti, tra le aree del Paese. Spreca risorse.
Quali saranno i criteri guida in questa prospettiva? La penalizzazione del settore umanistico nella scuola è già un eloquente segnale: il provvedimento è giustificato con la necessità di colmate un deficit nella istruzione scientifica esistente nel nostro Paese (ma come, se i giornali periodicamente ci raccontano che i nostri laureati trovano lavoro e successo all’estero a preferenze che da noi!). Sarà vero, ma perché orientare l’istruzione scientifica e la ricerca prevalentemente alla produzione di brevetti e scoperte strumentali? La scienza applicata e “remunerativa” senza un supporto della scienza “gratuita” normalmente ha poco futuro, va bene al massimo per qualche industria, non va affatto bene per un paese che deve organizzare le risorse al di la del loro uso immediato. E va ancora peggio in assenza di un adeguato sapere umanistico, necessario per l’organizzazione sociale e per tanti altri futili e non immediatamente remunerativi scopi. Saranno dunque interessi privati a stabilire cosa si dovrà studiare e sapere? Tornerà attuale il vecchio detto secondo cui quando le scuole sono vuote le carceri si riempiono? 

Rosario Mangiameli
mangiame@unict.it






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