Gli annunciati
provvedimenti sulla abolizione del valore legale del titolo di studio e
altre operazioni, meno note al grande pubblico ma a questa collegate,
hanno provocato la riapertura del dibattito sull’Università italiana e
sulle sue prospettive. Per la verità se ne sentiva il bisogno; la
stessa riforma Gelmini dello scorso anno era passata pur tra mille
proteste, ma senza un approfondimento. Il mondo dell’istruzione, non si
sa per quale arcano motivo, appare difficilmente decifrabile da chi
avrebbe il compito di informare il pubblico. Su di esso in genere
prevalgono giudizi affrettati e stereotipati, talvolta condivisi da
tutte le parti politiche e tutte le fonti di informazione con poche
eccezioni. Forse stiamo assistendo a una inversione di tendenza.
La tendenza generale che accomuna le linee di sviluppo delle politiche
scolastiche degli ultimi anni, con maggiori accentuazioni a destra, ma
con importanti contributi forniti dalla sinistra, si può leggere come
un processo di alleggerimento dell’impegno statale nel settore
dell’istruzione. “Alleggerimento” può anche essere un eufemismo che
tuttavia trova conferma innanzi tutto nella spesa pubblica sempre
decrescente per l’istruzione, dalle “riforme a costo zero” di
Berlinguer ai tagli selvaggi di Gelmini e Brunetta non contraddetti
dall’attuale governo.
L’abolizione del valore legale dei titoli di studio è l’ultimo, per
ora, passaggio di questo processo che andrebbe interpretato come una
presa d’atto da parte dello stesso stato della impossibilità di
garantire sulla qualità dei titoli. E’ una ritirata in buon ordine
rispetto al lungo e importante processo di costruzione della statualità
durato per circa un secolo e mezzo a partire dall’unificazione
italiana. Lo stato in questo settore dell’istruzione e della ricerca
non si è limitato a stabilire regole entro le quali i soggetti
interessati avrebbero dovuto muoversi, ma ha ritenuto di dover
provvedere direttamente a creare scuole di ogni ordine e grado, centri
di ricerca, università. Si è trattato di offrire opportunità a tutte le
parti del Paese, a tutti i ceti sociali. Lo stato dunque provvedeva a
istituire le scuole e poi garantiva sulla bontà del prodotto assegnando
un valore legale al titolo di studio da esse rilasciato. Questo poteva
avvenire con un processo che manteneva una tendenziale omogeneità nei
programmi insegnati, nella qualità degli insegnanti, nei meccanismi di
reclutamento (concorsi), nella stabilizzazione del personale insegnante
e addetto alla ricerca, garanzia non ultima di libertà
nell’insegnamento e nella ricerca . Era un grande progetto di
nazionalizzazione che investiva tutto il Paese, dalle aree più
favorite, a quelle meno favorite e marginali. Ragioni di spazio mi
obbligano a semplificare, e tuttavia è innegabile che il risultato è
stato quello di accompagnare un ampio processo di democratizzazione,
sostenuto da una vertiginosa crescita economica. La Repubblica con
l’articolo tre della Costituzione si è impegnata a garantire
l’eguaglianza tra i cittadini, perfino rimuovendo gli ostacoli che
ancora avrebbero potuto impedirla. In qualche modo il
perseguimento di un progetto di uguaglianza ha “fruttato” sviluppo
economico e coesione sociale.
Il tema della coesione sociale merita una breve osservazione. E’ stata
la scuola pubblica e laica a dare un importante contributo per ha
evitare che l’Italia corresse il rischio che alle contrapposizioni
politiche si sovrapponessero le divisioni religiose aggravando la
conflittualità fino a renderla ingovernabile, come purtroppo avviene
nei paesi in cui i linguaggi religiosi sopravanzano e sostituiscono la
politica. Il paese del papato era per forza di cose soggetto a tensioni
e sollecitazioni particolarmente forti in questo campo, accentuate
negli anni dai processi di democratizzazione. L’avere stabilito un
terreno di confronto comune per tutti, pur con la concessione di un
forte vantaggio alla educazione cattolica, è stato certamente un fatto
importante, di dialogo e di comprensione tra opinioni e credenze
diverse presenti nel Paese. Il tenore della scuola pubblica ha
influenzato positivamente anche quella privata e confessionale. Il
valore legale del titolo di studio, (così come l’assunzione attraverso
i pubblici concorsi) ha costituito un format valido per tutti a cui
tutti dovevano adeguarsi, ha fornito un linguaggio comune.
La sua abolizione ci riporta nella galassia delle diverse condizioni di
partenza: sociali, territoriali, di credenza religiosa. Ciò interviene
in un Paese che ha visto in questi ultimi anni allargarsi le differenze
tra Nord e Sud, che ha cominciato ad affrontare il problema della
immigrazione con grande difficoltà dovuta alla progressiva messa in
disarmo della scuola, possibile luogo di socializzazione, oltre che di
istruzione come è stata al tempo della Pubblica Istruzione.
L’abolizione del valore legale del titolo di studio rimette in
discussione per intero il processo di edificazione del “sistema Paese”,
come si diceva, mette a rischio il livello di coesione sociale
attualmente raggiunto, rischia di creare agenzie di valutazione, come
ne stanno sorgendo, affidate a privati e svincolate da controlli che
possano assicurare un grado minimo di omogeneità necessario alla
comunicazione e al funzionamento di sistemi complessi. Svantaggia gli
svantaggiati allargando la distanza tra i ceti, tra le aree del Paese.
Spreca risorse.
Quali saranno i criteri guida in questa prospettiva? La penalizzazione
del settore umanistico nella scuola è già un eloquente segnale: il
provvedimento è giustificato con la necessità di colmate un deficit
nella istruzione scientifica esistente nel nostro Paese (ma come, se i
giornali periodicamente ci raccontano che i nostri laureati trovano
lavoro e successo all’estero a preferenze che da noi!). Sarà vero, ma
perché orientare l’istruzione scientifica e la ricerca prevalentemente
alla produzione di brevetti e scoperte strumentali? La scienza
applicata e “remunerativa” senza un supporto della scienza “gratuita”
normalmente ha poco futuro, va bene al massimo per qualche industria,
non va affatto bene per un paese che deve organizzare le risorse al di
la del loro uso immediato. E va ancora peggio in assenza di un adeguato
sapere umanistico, necessario per l’organizzazione sociale e per tanti
altri futili e non immediatamente remunerativi scopi. Saranno dunque
interessi privati a stabilire cosa si dovrà studiare e sapere? Tornerà
attuale il vecchio detto secondo cui quando le scuole sono vuote le
carceri si riempiono?
Rosario Mangiameli
mangiame@unict.it