L'intreccio tra la cultura scientifica e quella tecnica è la chiave per il futuro
Data: Martedì, 06 dicembre 2011 ore 17:30:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


«Nel rapido, vertiginoso movimento della vita moderna, essa non può volgersi indietro a meditare con Socrate e Platone. (...) So di urtare contro la superstizione quasi generale; ma in questa superstizione è la principale origine di quegli abbozzi o aborti di saccenti, non utili a sé, dannosi alla società che ogni anno sono iscritti fra i licenziati dei nostri licei e i laureati delle nostre università». L'auspicio era verso una diffusione dell'istruzione tecnica, per evitare l'aumento di tanti «volgari paglietta». Concetti, questi, di un dibattito apparso sul Corriere della Sera di fine '800, che, sia pure con il linguaggio colorito del tempo, non sono diversi da quelli esposti nell'articolo di Claudio Giunta pubblicato dal Domenicale dello scorso 11 ottobre.                      
       Tanto più che il ragionamento anche allora si completava con la critica all'eccessiva indulgenza «negli esami e nella tendenza perniciosa tra le diverse Università di farsi concorrenza per il numero degli scolari».
C'è da chiedersi se questo sia il segnale dell'immutabilità del nostro paese; o non piuttosto la testimonianza del riprodursi dei luoghi comuni attraverso i quali gli intellettuali italiani amano misurarsi in ripetitivi dibattiti, dove si richiamano le tesi di sempre, più teoriche che basate sull'analisi del mutarsi della realtà. Ecco allora riproporsi di nuovo la necessità di orientare i giovani verso scelte scolastiche che consentano di soddisfare le esigenze di professionalità "tecniche", scoraggiando le tendenze in atto per curricula umanistici. Già questo imperativo presuppone che le giovani generazioni decidano in modo incosciente, trascinati dal persistere di eredità gentiliane (sarebbe l'unico caso di un'attiva memoria del passato!); oppure allettati dalla certezza – secondo la convinzione dell'autore – che studiare, ad esempio, Schopenhauer o la controriforma sia più facile che imparare a svolgere un'equazione matematica. Se poi la presunta facilità deriva dallo scarso rigore esercitato dai docenti, ci si trova di fronte a tutt'altro problema, da trattare con minore genericità (la facoltà di lingue dell'università di Bologna fa, ad esempio, test di ingresso pesantemente selettivi, e non è certo la sola) e con un più approfondito discorso sul ruolo formativo assegnato alle discipline umanistiche.

Occorre, dunque, sgomberare il campo da simili considerazioni che sanno di buon tempo antico, dove si affida la preparazione verso una "cultura diffusa" e una "coscienza civica" alla scuola secondaria; mentre l'istruzione universitaria dovrebbe essere prevalentemente tecnico-scientifica, salvo "riserve indiane" minoritarie destinate a creare insegnanti, politici e giornalisti, come se il mondo non fosse cambiato anche per queste professioni, obbligandole a cognizioni in ambiti ben più vasti di quelli valutati "umanistici". Eppure l'autore, opportunamente, stigmatizza l'equivoco di una diffusione culturale attraverso l'offerta festivaliera, fondata sull'idea che acquisire cultura non derivi da un faticoso percorso di istruzione personale fatto di nozioni sedimentate nella memoria, di confronto con se stessi, di messa in discussione delle proprie certezze. Ma se così è, perché non protrarre questo lavorio di crescita di consapevolezza anche negli anni universitari? Ugualmente ritengo che la strada da percorrere sia più complessa di quella realizzabile (cfr. Marchis, Domenicale del 23 ottobre) attraverso l'inserimento di discipline umanistiche nei corsi "scientifici". Il punto delicato, infatti, è dare un senso preciso a una tale scelta, indirizzata a modificare, attraverso una meditata lettura delle trasformazioni epocali in corso, lo stesso impianto educativo che dalle cattedre universitarie si continua a trasmettere ricalcando gli schemi di una tradizione formativa divenuta ormai inadeguata. Si tratta di scommettere sulla capacità, per nulla data, di «inventare il futuro» per i nostri giovani, additando le vie delle nuove professionalità, che non riguardano solo l'utilizzo delle moderne tecnologie; bensì il come tali tecnologie possano essere impiegate per intervenire nel concreto in risposta ai problemi della società in costruzione.

Comprendendo che le "scienze umane" hanno la funzione di trasmettere la "storicità" del nostro esistere, di inserire uno stratificarsi di conoscenze in tutti i campi del sapere che consenta di uscire dall'improduttivo appiattirsi sul presente e di dar ragione a chi ha sottolineato che nel passato sta il nostro futuro. In tal modo si evita di relegare la creatività culturale nell'ambito dell'arte e dello spettacolo: come se sperimentare – sono solo esempi tra i tanti – una nuova tecnica per l'inserimento sociale delle disabilità o per selezionare la raccolta dei rifiuti o quant'altro migliori la vivibilità collettiva non sia "creativo" e non richieda quella compresenza di competenze "materiali" e " immateriali" che, in fondo, fanno sempre più assomigliare l'uomo della modernità post-industriale all'artigiano artista e creatore del migliore umanesimo europeo.
Si tratta di una sfida che l'attuale generazione di docenti deve far propria, predisponendosi a intrecci conoscitivi e formativi inediti, che non siano solo la sommatoria del tradizionale bagaglio di conoscenze, ma che risultino disponibili verso ipotesi di costruzione di competenze nuove adeguate alle necessità di un avvenire che sta diventando sempre più il nostro oggi.  (da Il sole24Ore)

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