«Nel rapido,
vertiginoso movimento della vita moderna, essa non può volgersi
indietro a meditare con Socrate e Platone. (...) So di urtare contro la
superstizione quasi generale; ma in questa superstizione è la
principale origine di quegli abbozzi o aborti di saccenti, non utili a
sé, dannosi alla società che ogni anno sono iscritti fra i licenziati
dei nostri licei e i laureati delle nostre università». L'auspicio era
verso una diffusione dell'istruzione tecnica, per evitare l'aumento di
tanti «volgari paglietta». Concetti, questi, di un dibattito apparso
sul Corriere della Sera di fine '800, che, sia pure con il linguaggio
colorito del tempo, non sono diversi da quelli esposti nell'articolo di
Claudio Giunta pubblicato dal Domenicale dello scorso 11
ottobre.
Tanto più che il ragionamento
anche allora si completava con la critica all'eccessiva indulgenza
«negli esami e nella tendenza perniciosa tra le diverse Università di
farsi concorrenza per il numero degli scolari».
C'è da chiedersi se questo sia il segnale dell'immutabilità del nostro
paese; o non piuttosto la testimonianza del riprodursi dei luoghi
comuni attraverso i quali gli intellettuali italiani amano misurarsi in
ripetitivi dibattiti, dove si richiamano le tesi di sempre, più
teoriche che basate sull'analisi del mutarsi della realtà. Ecco allora
riproporsi di nuovo la necessità di orientare i giovani verso scelte
scolastiche che consentano di soddisfare le esigenze di professionalità
"tecniche", scoraggiando le tendenze in atto per curricula umanistici.
Già questo imperativo presuppone che le giovani generazioni decidano in
modo incosciente, trascinati dal persistere di eredità gentiliane
(sarebbe l'unico caso di un'attiva memoria del passato!); oppure
allettati dalla certezza – secondo la convinzione dell'autore – che
studiare, ad esempio, Schopenhauer o la controriforma sia più facile
che imparare a svolgere un'equazione matematica. Se poi la presunta
facilità deriva dallo scarso rigore esercitato dai docenti, ci si trova
di fronte a tutt'altro problema, da trattare con minore genericità (la
facoltà di lingue dell'università di Bologna fa, ad esempio, test di
ingresso pesantemente selettivi, e non è certo la sola) e con un più
approfondito discorso sul ruolo formativo assegnato alle discipline
umanistiche.
Occorre, dunque, sgomberare il campo da simili considerazioni che sanno
di buon tempo antico, dove si affida la preparazione verso una "cultura
diffusa" e una "coscienza civica" alla scuola secondaria; mentre
l'istruzione universitaria dovrebbe essere prevalentemente
tecnico-scientifica, salvo "riserve indiane" minoritarie destinate a
creare insegnanti, politici e giornalisti, come se il mondo non fosse
cambiato anche per queste professioni, obbligandole a cognizioni in
ambiti ben più vasti di quelli valutati "umanistici". Eppure l'autore,
opportunamente, stigmatizza l'equivoco di una diffusione culturale
attraverso l'offerta festivaliera, fondata sull'idea che acquisire
cultura non derivi da un faticoso percorso di istruzione personale
fatto di nozioni sedimentate nella memoria, di confronto con se stessi,
di messa in discussione delle proprie certezze. Ma se così è, perché
non protrarre questo lavorio di crescita di consapevolezza anche negli
anni universitari? Ugualmente ritengo che la strada da percorrere sia
più complessa di quella realizzabile (cfr. Marchis, Domenicale del 23
ottobre) attraverso l'inserimento di discipline umanistiche nei corsi
"scientifici". Il punto delicato, infatti, è dare un senso preciso a
una tale scelta, indirizzata a modificare, attraverso una meditata
lettura delle trasformazioni epocali in corso, lo stesso impianto
educativo che dalle cattedre universitarie si continua a trasmettere
ricalcando gli schemi di una tradizione formativa divenuta ormai
inadeguata. Si tratta di scommettere sulla capacità, per nulla data, di
«inventare il futuro» per i nostri giovani, additando le vie delle
nuove professionalità, che non riguardano solo l'utilizzo delle moderne
tecnologie; bensì il come tali tecnologie possano essere impiegate per
intervenire nel concreto in risposta ai problemi della società in
costruzione.
Comprendendo che le "scienze umane" hanno la funzione di trasmettere la
"storicità" del nostro esistere, di inserire uno stratificarsi di
conoscenze in tutti i campi del sapere che consenta di uscire
dall'improduttivo appiattirsi sul presente e di dar ragione a chi ha
sottolineato che nel passato sta il nostro futuro. In tal modo si evita
di relegare la creatività culturale nell'ambito dell'arte e dello
spettacolo: come se sperimentare – sono solo esempi tra i tanti – una
nuova tecnica per l'inserimento sociale delle disabilità o per
selezionare la raccolta dei rifiuti o quant'altro migliori la
vivibilità collettiva non sia "creativo" e non richieda quella
compresenza di competenze "materiali" e " immateriali" che, in fondo,
fanno sempre più assomigliare l'uomo della modernità post-industriale
all'artigiano artista e creatore del migliore umanesimo europeo.
Si tratta di una sfida che l'attuale generazione di docenti deve far
propria, predisponendosi a intrecci conoscitivi e formativi inediti,
che non siano solo la sommatoria del tradizionale bagaglio di
conoscenze, ma che risultino disponibili verso ipotesi di costruzione
di competenze nuove adeguate alle necessità di un avvenire che sta
diventando sempre più il nostro oggi. (da Il sole24Ore)
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