Meglio Pinocchio che il gatto e la volpe
Data: Domenica, 10 luglio 2011 ore 09:09:35 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Oggi andrò a sentire i pifferi e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo» – dice Pinocchio. Ma non è così che funziona. Ormai l’Italia è unita, da più di dieci anni c’è la legge Casati, da quattro la legge Coppino. È stato introdotto l’obbligo scolastico: con o senza vestituccio di carta fiorita e abbecedario, si sta sui banchi, a braccia conserte, da bambini normali. Ma il burattino recalcitra: «senza origine né nascita», come diceva Manganelli, Pinocchio vive le sue avventure sulla soglia della storia e della cultura, fra Fate e Pescecani, Grilli e Mangiafuochi, e di andare a scuola non vede l’obbligo né la necessità.                
Non è l’unico. 150 anni di storia unitaria ci hanno reso del tutto familiare l’obbligatorietà scolastica, ed anzi compiamo (per fortuna) ogni sforzo per elevare il livello della formazione e dell’istruzione, nella nuova cornice europea. L’Italia aderisce alla convenzione di Lisbona sul riconoscimento dei titoli di studio, ha sottoscritto la Dichiarazione della Sorbona sull’armonizzazione dei sistemi di istruzione superiore, appoggia il Processo di Bologna sulle politiche per la promozione di uno spazio europeo comune in materia di istruzione e ricerca.
PIER PAOLO PASOLINI E tuttavia pulsioni anti-istituzionali, contro quella che Deleuze e Guattari chiamavano in modo franco e brutale «la macchina dell’insegnamento», si sono nel corso del tempo altre volte manifestate. Negli anni ’70, Pier Paolo Pasolini si scagliava ad esempio contro la scuola dell’obbligo (e la televisione), «scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese – tuonava – che insegna solo cose inutili, stupide, false, moralistiche ». Di fronte alle critiche, chiarì: smorzò la provocazione e la commutò nell’esigenza di una riforma radicale del sistema scolastico. Ancora più drastica la posizione di Ivan Illich, altro intellettuale irregolare del ‘900, brillante e geniale, che nell’istituzione scolastica vedeva però solo il lato dell’assoggettamento, dell’uniformazione: «frequentare la scuola elementare – affermava – non è un lusso innocuo, ma assomiglia piuttosto all’abitudine dell’indio delle Ande di masticare coca, che aggioga il lavoratore al padrone». Le sue tesi divennero uno slogan: descolarizzare non solo l’istruzione ma l’intera società.
GELMINI Chissà che la Gelmini non abbia orecchiato qualcosa. I punti d’attacco alla scuola pubblica possono infatti essere molti: magari non così radicali come quelli individuati da Pinocchio, Pasolini o Illich, e tuttavia non per questo da sottovalutare. Si pensi alla questione più modesta del valore legale del titolo di studio. La Costituente non s’era ancora chiusa e già Luigi Einaudi lamentava che esso soffocava la libertà d’insegnamento: finché non sarà tolto – scriveva inascoltato (per fortuna) – noi avremo solo «insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo». E così, in nome della libertà, un pezzo dello Stato doveva esser tirato giù. Può darsi che sia meglio così. Secondo alcuni, è giusto così. Qualche settimana fa, Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, audito in Parlamento, invitava a riflettere sull’opportunità di abolire il valore legale del titolo di studio, liberalizzare la formazione universitaria e lasciar fare al mercato «il regolatore del valore dei titoli rilasciati ». Che in questo modo la formazione venga regolata al modo in cui il mercato regola altri, più prosaici valori, per Gentili evidentemente non fa problema. Che così si aprirebbero ulteriori diseguaglianze nel Paese, dal momento che il mercato lo si introduce per differenziare, non certo per eguagliare, neppure. Che con l’argomento del mercato unico regolatore non si vede più perché non lasciare che sia sempre il mercato a decidere quando immettere forza lavoro nel sistema, invece di obbligare i ragazzi a frequentare la scuola, neanche questo sembra turbare più che tanto. Sia chiaro: nessun paraocchi ideologico. Prendiamo tutto quel che serve a migliorare la qualità dell’istruzione. Ma proprio perciò smettiamola di contrapporre astrattamente l’individuo allo Stato, come se tutta la libertà stesse dalla parte del mercato e tutta la costrizione nelle sole leggi dello Stato.
IL LIBRO E, soprattutto, ascoltiamo anche chi nella scuola pubblica ci lavora, e non accetterebbe di essere descritto nei termini adoperati daEinaudi (o da Illich): ottuso inculcatore di nozioni prefabbricate. Giuseppe Caliceti è uno di questi. Maestro elementare, ha pubblicato di recente Una scuola da rifare. Lettera ai genitori (Feltrinelli), dove racconta la triste favola di un papà che annuncia la ristrutturazione della famiglia. Siamo una piccola azienda, dice, i soldi non bastano più e anche se i figli sono tutti uguali bisogna far selezione: inutile investire sui più ignorati e meno scolarizzati. Inutile investire su Pinocchio, insomma. E il Gatto e la Volpe  (da L'Unità di Massimo Adinolfi)





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