Oggi andrò a sentire
i pifferi e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo» –
dice Pinocchio. Ma non è così che funziona. Ormai l’Italia è unita, da
più di dieci anni c’è la legge Casati, da quattro la legge Coppino. È
stato introdotto l’obbligo scolastico: con o senza vestituccio di carta
fiorita e abbecedario, si sta sui banchi, a braccia conserte, da
bambini normali. Ma il burattino recalcitra: «senza origine né
nascita», come diceva Manganelli, Pinocchio vive le sue avventure sulla
soglia della storia e della cultura, fra Fate e Pescecani, Grilli e
Mangiafuochi, e di andare a scuola non vede l’obbligo né la
necessità.
Non è l’unico. 150 anni di storia unitaria ci hanno reso del tutto
familiare l’obbligatorietà scolastica, ed anzi compiamo (per fortuna)
ogni sforzo per elevare il livello della formazione e dell’istruzione,
nella nuova cornice europea. L’Italia aderisce alla convenzione di
Lisbona sul riconoscimento dei titoli di studio, ha sottoscritto la
Dichiarazione della Sorbona sull’armonizzazione dei sistemi di
istruzione superiore, appoggia il Processo di Bologna sulle politiche
per la promozione di uno spazio europeo comune in materia di istruzione
e ricerca.
PIER PAOLO PASOLINI E tuttavia pulsioni anti-istituzionali, contro
quella che Deleuze e Guattari chiamavano in modo franco e brutale «la
macchina dell’insegnamento», si sono nel corso del tempo altre volte
manifestate. Negli anni ’70, Pier Paolo Pasolini si scagliava ad
esempio contro la scuola dell’obbligo (e la televisione), «scuola di
iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese – tuonava – che
insegna solo cose inutili, stupide, false, moralistiche ». Di fronte
alle critiche, chiarì: smorzò la provocazione e la commutò
nell’esigenza di una riforma radicale del sistema scolastico. Ancora
più drastica la posizione di Ivan Illich, altro intellettuale
irregolare del ‘900, brillante e geniale, che nell’istituzione
scolastica vedeva però solo il lato dell’assoggettamento,
dell’uniformazione: «frequentare la scuola elementare – affermava – non
è un lusso innocuo, ma assomiglia piuttosto all’abitudine dell’indio
delle Ande di masticare coca, che aggioga il lavoratore al padrone». Le
sue tesi divennero uno slogan: descolarizzare non solo l’istruzione ma
l’intera società.
GELMINI Chissà che la Gelmini non abbia orecchiato qualcosa. I punti
d’attacco alla scuola pubblica possono infatti essere molti: magari non
così radicali come quelli individuati da Pinocchio, Pasolini o Illich,
e tuttavia non per questo da sottovalutare. Si pensi alla questione più
modesta del valore legale del titolo di studio. La Costituente non
s’era ancora chiusa e già Luigi Einaudi lamentava che esso soffocava la
libertà d’insegnamento: finché non sarà tolto – scriveva inascoltato
(per fortuna) – noi avremo solo «insegnanti occupati a ficcare nella
testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali
potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni
e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità
scientifica ed alla formazione morale dell’individuo». E così, in nome
della libertà, un pezzo dello Stato doveva esser tirato giù. Può darsi
che sia meglio così. Secondo alcuni, è giusto così. Qualche settimana
fa, Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, audito in
Parlamento, invitava a riflettere sull’opportunità di abolire il valore
legale del titolo di studio, liberalizzare la formazione universitaria
e lasciar fare al mercato «il regolatore del valore dei titoli
rilasciati ». Che in questo modo la formazione venga regolata al modo
in cui il mercato regola altri, più prosaici valori, per Gentili
evidentemente non fa problema. Che così si aprirebbero ulteriori
diseguaglianze nel Paese, dal momento che il mercato lo si introduce
per differenziare, non certo per eguagliare, neppure. Che con
l’argomento del mercato unico regolatore non si vede più perché non
lasciare che sia sempre il mercato a decidere quando immettere forza
lavoro nel sistema, invece di obbligare i ragazzi a frequentare la
scuola, neanche questo sembra turbare più che tanto. Sia chiaro: nessun
paraocchi ideologico. Prendiamo tutto quel che serve a migliorare la
qualità dell’istruzione. Ma proprio perciò smettiamola di contrapporre
astrattamente l’individuo allo Stato, come se tutta la libertà stesse
dalla parte del mercato e tutta la costrizione nelle sole leggi dello
Stato.
IL LIBRO E, soprattutto, ascoltiamo anche chi nella scuola pubblica ci
lavora, e non accetterebbe di essere descritto nei termini adoperati
daEinaudi (o da Illich): ottuso inculcatore di nozioni prefabbricate.
Giuseppe Caliceti è uno di questi. Maestro elementare, ha pubblicato di
recente Una scuola da rifare. Lettera ai genitori (Feltrinelli), dove
racconta la triste favola di un papà che annuncia la ristrutturazione
della famiglia. Siamo una piccola azienda, dice, i soldi non bastano
più e anche se i figli sono tutti uguali bisogna far selezione: inutile
investire sui più ignorati e meno scolarizzati. Inutile investire su
Pinocchio, insomma. E il Gatto e la Volpe (da L'Unità di Massimo
Adinolfi)