Sorpresa, i professori sono felici
Data: Sabato, 01 maggio 2010 ore 19:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


C´è vita nella scuola; bene, perché quest´esercito di ottocentomila pedagoghi è pur sempre il più potente intellettuale collettivo del nostro paese. Un patrimonio che, scoprono i curatori dell´indagine, Alessandro Cavalli e Gianluca Argentin, non sembra troppo logorato. A dispetto di tutto. Vent´anni dopo la prima rilevazione, infatti, l´identikit del docente italiano resta problematico: la classe insegnante più vecchia del continente (alle medie il 70% ha più di cinquant´anni), la carriera più accidentata (fino a 9 anni per entrare in ruolo), gli stipendi del 10-20 per cento sotto la media, la femminilizzazione travolgente (otto donne su dieci cattedre, 95% alle elementari) che tradisce ancora il mestiere-rifugio per donne incatenate alla "doppia presenza".
Ti aspetteresti, in simili trincee, truppe demoralizzate. Nient´affatto. Gli insegnanti italiani sono molto più soddisfatti di dieci anni fa. La quota di chi "sceglierebbe di nuovo la professione di insegnante", ora l´82%, è cresciuta di 9-10 punti in ogni ordine di scuola. Viceversa, quanti sognano la fuga verso la pensione o un altro lavoro, i "bruciati", i burn-out, sono calati nella stessa misura. Cosa mai è successo di tanto incoraggiante, in questo decennio, alla scuola italiana? Nulla. La scuola non è migliorata. Forse è peggiorato tutto il resto. E nella crisi generale la scuola ha sofferto di meno. Dicono gli insegnanti: il "microclima" in classe è migliore di quel che appare. Aule e corridoi sono spazi di relazioni umane soddisfacenti coi colleghi, i dirigenti, soprattutto (91%) con gli studenti: "poter lavorare coi giovani" del resto è la prima (63%) motivazione per scegliere questo mestiere. E le scuole-inferno del bullismo, le scuole-babele delle mille nazionalità? Problemi, ma affrontabili.
Autostima o ottimismo della volontà? È incoraggiante che più di 3 insegnanti su 4 dichiarino di aver scelto il loro mestiere per vocazione e non per motivi pratici (garanzia del posto, tempo libero ecc.). Ma cos´è una "vocazione"? Dieci anni fa sembrava affermarsi tra i prof la più moderna auto-immagine di "professionisti", ora torna a prevalere la rivendicazione della "funzione sociale". Retromarcia difensiva: lo stipendio arranca, la precarietà aumenta, la considerazione sociale crolla: ma di che professionalità parliamo? Eppure sono in genere buoni insegnanti. Il rapporto mette un 20-30% addirittura nella fascia di eccellenza. L´impegno cresce: ormai la metà dei docenti "stanno a scuola" ben oltre l´orario di lezione. La vecchia "semiprofessione" da casalinghe è per molti oggi un mestiere a pieno tempo; il "patto al ribasso" democristiano (lavori poco, ti pago poco) sta saltando. Solo la busta paga non se n´è accorta.
Eppure la stessa autovalutazione dei prof è spesso severa. Sanno di essere stati reclutati con criteri lontani dal puro merito, si sentono competenti sulle proprie materie ma mal preparati a insegnarle (9 maestri su 10 non hanno mai seguito un corso di specializzazione). Confessano anche qualche pigrizia nell´auto-formazione: benché più lettori della media e anche delle altre professioni "intellettuali", un docente su cinque alle superiori non ama i libri, i prof delle medie meno di tutti (il 44% ne legge meno di tre l´anno), anche meno dei maestri elementari. Però molti si sforzano di tenersi al passo. Del tutto volontariamente, i docenti italiani sono entrati nell´era telematica, comprando a proprie spese computer e banda larga: quasi 9 su 10 sono connessi (la media fra i laureati è del 77%). Ma se ne servono ancora poco (meno della metà si collega ogni giorno) e non in classe: a parte i laboratori di informatica, il pc serve per preparare le lezioni, ma non per fare lezione.
In classe, poche novità, forse un vento d´antico. La "lezione frontale" sembra tornare sovrana. Ma è una scelta pragmatica, non tradizionalista: terminata l´era delle sperimentazioni audaci, prevale un dosaggio di "frontalità" e "interattività". Se una rivoluzione c´è stata, riguarda l´ultimo atto: il voto. Che non certifica più il raggiungimento di un certo livello di conoscenze. Per un docente su quattro la "quantità di apprendimento" non conta proprio. Timorosi (50%) di non possedere criteri di giudizio "oggettivi" equi, preferiscono premiare i progressi e l´impegno dimostrati dal singolo studente. La società esterna invoca rigore e severità, ma le deresponsabilizzanti interrogazioni programmate sono ormai di rigore in circa una classe su quattro (erano il 17% dieci anni fa), senza grandi differenze tra licei e professionali, tra scuole del nord e scuole del sud. Lassismo? O rifiuto di fare da foglia di fico, di essere gli unici controllori implacabili in una società dalle regole rilassate? L´isola-scuola si difende diventando autoreferenziale. Ma se non sono più i «custodi del lucignolo spento» di don Milani, e neppure le «vestali della classe media» della sociologia anni ‘70, i nostri insegnanti cosa vogliono essere?







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