C´è vita nella scuola; bene, perché quest´esercito di ottocentomila
pedagoghi è pur sempre il più potente intellettuale collettivo del
nostro paese. Un patrimonio che, scoprono i curatori dell´indagine,
Alessandro Cavalli e Gianluca Argentin, non sembra troppo logorato. A
dispetto di tutto. Vent´anni dopo la prima rilevazione, infatti,
l´identikit del docente italiano resta problematico: la classe
insegnante più vecchia del continente (alle medie il 70% ha più di
cinquant´anni), la carriera più accidentata (fino a 9 anni per entrare
in ruolo), gli stipendi del 10-20 per cento sotto la media, la
femminilizzazione travolgente (otto donne su dieci cattedre, 95% alle
elementari) che tradisce ancora il mestiere-rifugio per donne
incatenate alla "doppia presenza".
Ti aspetteresti, in simili trincee, truppe demoralizzate.
Nient´affatto. Gli insegnanti italiani sono molto più soddisfatti di
dieci anni fa. La quota di chi "sceglierebbe di nuovo la professione di
insegnante", ora l´82%, è cresciuta di 9-10 punti in ogni ordine di
scuola. Viceversa, quanti sognano la fuga verso la pensione o un altro
lavoro, i "bruciati", i burn-out, sono calati nella stessa misura. Cosa
mai è successo di tanto incoraggiante, in questo decennio, alla scuola
italiana? Nulla. La scuola non è migliorata. Forse è peggiorato tutto
il resto. E nella crisi generale la scuola ha sofferto di meno. Dicono
gli insegnanti: il "microclima" in classe è migliore di quel che
appare. Aule e corridoi sono spazi di relazioni umane soddisfacenti coi
colleghi, i dirigenti, soprattutto (91%) con gli studenti: "poter
lavorare coi giovani" del resto è la prima (63%) motivazione per
scegliere questo mestiere. E le scuole-inferno del bullismo, le
scuole-babele delle mille nazionalità? Problemi, ma affrontabili.
Autostima o ottimismo della volontà? È incoraggiante che più di 3
insegnanti su 4 dichiarino di aver scelto il loro mestiere per
vocazione e non per motivi pratici (garanzia del posto, tempo libero
ecc.). Ma cos´è una "vocazione"? Dieci anni fa sembrava affermarsi tra
i prof la più moderna auto-immagine di "professionisti", ora torna a
prevalere la rivendicazione della "funzione sociale". Retromarcia
difensiva: lo stipendio arranca, la precarietà aumenta, la
considerazione sociale crolla: ma di che professionalità parliamo?
Eppure sono in genere buoni insegnanti. Il rapporto mette un 20-30%
addirittura nella fascia di eccellenza. L´impegno cresce: ormai la metà
dei docenti "stanno a scuola" ben oltre l´orario di lezione. La vecchia
"semiprofessione" da casalinghe è per molti oggi un mestiere a pieno
tempo; il "patto al ribasso" democristiano (lavori poco, ti pago poco)
sta saltando. Solo la busta paga non se n´è accorta.
Eppure la stessa autovalutazione dei prof è spesso severa. Sanno di
essere stati reclutati con criteri lontani dal puro merito, si sentono
competenti sulle proprie materie ma mal preparati a insegnarle (9
maestri su 10 non hanno mai seguito un corso di specializzazione).
Confessano anche qualche pigrizia nell´auto-formazione: benché più
lettori della media e anche delle altre professioni "intellettuali", un
docente su cinque alle superiori non ama i libri, i prof delle medie
meno di tutti (il 44% ne legge meno di tre l´anno), anche meno dei
maestri elementari. Però molti si sforzano di tenersi al passo. Del
tutto volontariamente, i docenti italiani sono entrati nell´era
telematica, comprando a proprie spese computer e banda larga: quasi 9
su 10 sono connessi (la media fra i laureati è del 77%). Ma se ne
servono ancora poco (meno della metà si collega ogni giorno) e non in
classe: a parte i laboratori di informatica, il pc serve per preparare
le lezioni, ma non per fare lezione.
In classe, poche novità, forse un vento d´antico. La "lezione frontale"
sembra tornare sovrana. Ma è una scelta pragmatica, non
tradizionalista: terminata l´era delle sperimentazioni audaci, prevale
un dosaggio di "frontalità" e "interattività". Se una rivoluzione c´è
stata, riguarda l´ultimo atto: il voto. Che non certifica più il
raggiungimento di un certo livello di conoscenze. Per un docente su
quattro la "quantità di apprendimento" non conta proprio. Timorosi
(50%) di non possedere criteri di giudizio "oggettivi" equi,
preferiscono premiare i progressi e l´impegno dimostrati dal singolo
studente. La società esterna invoca rigore e severità, ma le
deresponsabilizzanti interrogazioni programmate sono ormai di rigore in
circa una classe su quattro (erano il 17% dieci anni fa), senza grandi
differenze tra licei e professionali, tra scuole del nord e scuole del
sud. Lassismo? O rifiuto di fare da foglia di fico, di essere gli unici
controllori implacabili in una società dalle regole rilassate?
L´isola-scuola si difende diventando autoreferenziale. Ma se non sono
più i «custodi del lucignolo spento» di don Milani, e neppure le
«vestali della classe media» della sociologia anni ‘70, i nostri
insegnanti cosa vogliono essere?