Gli atti meccanici di inquietante crudeltà, eseguiti da mostri ordinari, dagli sguardi spenti e privi di genio acquisiscono, su quella sedia al banco degli imputati, il giusto peso, la loro reale portata, poiché nuovamente dotati di pensiero e coscienza della colpa. E’ questa l’idea forte che sottende alla filosofia politica del libro della pensatrice e giornalista Hanna Arendt, intellettuale tedesca, ebrea di origine che sperimentò in prima persona lo strazio dell’emarginazione intellettuale del suo popolo, la decadenza culturale dovuta alle leggi razziali, l’emigrazione e il campo di concentramento. Abbandonate la “tribù malinconica dei filosofi”, l’Università e
la Germania ,
la Arendt visse e teorizzò una “seconda nascita” attraverso il recupero della mistica agostiniana e delle proprie origini, impresa che la motivò, dal profondo, alla risoluta scelta di una “vita activa”. L’azione è il tratto che definisce la natura dell’uomo, poiché gli consente di imprimere un nuovo inizio, infrangere l’ordine preesistente rivendicando la propria libertà; in origine introdotto nel mondo fisico, e in secondo luogo in quello sociale, l’individuo è in entrambi i casi portatore di un nuovo punto di vista. In questo senso è comprensibile come ogni crisi storica e culturale della politica, della libertà e del pensiero possa derivare da una lacuna dell’azione. La filosofia di Hanna Arendt si configura così nel suo tempo, e attraverso una sua rilettura, nel nostro, come una lotta pragmatica per l’attribuzione di senso all’agire.
Al bivio tra pensiero contemplativo e prassi non esitò dunque ad imboccare quest’ultima, anche se questo significò infrangere il conformismo di una vita inautentica e additare pericolosamente il male assoluto nelle sue radici: i totalitarismi. Nelle sue più famose opere, Le origini del totalitarismo, La banalità del male e Vita Activa. La condizione umana, Hanna Arendt osserva l’uomo a partire dai suo atti storici più atroci, e lo incoraggia ad una riabilitazione, possibile attraverso il pieno recupero del proprio strumento razionale. Le azioni criminali del nazismo sono spogliate dall’aura di eccezionalità, e diventano, nel contesto di un sistema che schiaccia l’individuo e lo dispone all’accettazione dell’orrore, il rischio in agguato in ogni mente mediocre incapace di sottrarsi, con la disobbedienza civile, alle leggi.
La vita della mente, sua ultima opera pubblicata postuma, è secondo le sue stesse parole “un trattato del buon governo mentale”. Le teorie dell’Arendt sciolgono, attraverso la biografia e le lucide analisi della realtà storica del Novecento, il paradosso della reggenza dei filosofi presente nell’utopia politica di Platone: nella realizzata follia del totalitarismo, saggezza e senso critico si rendono indispensabili per chi conduce lo Stato: un’azione di guida che, attraverso la ribalta delle soggettività e una cittadinanza priva di delega,
la Arendt estende a tutti gli uomini. Salvare lo spazio comune, che indicò in metafora come un tavolo luogo di confronto che allontana e unisce e intorno al quale ci si siede e rivela, è creare una cittadinanza attiva. L’antidoto alla dittatura è dunque la politica di tutti: il solo atto magico, oggi come ieri, in grado di riportarci “da rotelle di un ingranaggio a uomini”. Il nostro tempo, afflitto dalle epidemie devastanti del primato economico, del conformismo sociale, dell’inoperosità e della crisi politica avrebbe urgenza di ritrovare nuove strade, ricordando gli errori di ieri, in cui facilmente si cade dimenticando l’individuo, singolarità irriducibile, libertà sempre aperta e azione sempre possibile.
Irene Giuffrida