E' possibile
farne oggetto «di riflessione seria e non acritica e di valorizzazione
di tutto quel che ci unisce», come ci ha invitato a fare il Presidente
Napolitano?
E’ bene partire dalla scuola. Che è nata con l'Italia unita. Prima
c'erano i precettori presso i ricchi. E le scuole strettamente
confessionali. E' merito del regno sabaudo e della destra storica se la
scuola fu subito resa pubblica e obbligatoria. E' stato il regio
decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna -
noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente
esteso a tutta l'Italia che ha dato il via all'alfabetizzazione del
paese. Un'opera titanica: l'analfabetismo maschile era al 74% e quello
femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia meridionale.
Un'opera che è continuata lungo i decenni nelle scuole la mattina e in
quelle serali e poi via radio e con i primi anni della televisione
pubblica. Un'opera che è stata compiuta all'inizio da maestri, che
furono spesso promotori delle grandi culture politiche che hanno
forgiato il paese: liberalismo, anarchismo, socialismo, cattolicesimo
sociale; e da poche maestre, che diffusero per prime le ragioni del
movimento delle donne. Questo esercito civile ha popolato la vita di
città e campagne insegnando a milioni di bambini a leggere, scrivere,
far di conto, conoscere la storia, le scienze, la geografia. Con i
soldi dello Stato. E non più grazie alla pia carità dei fedeli né sotto
l'imprimatur sui libri siglati dal Papa.
Dunque, va ricordato che l'unità è stata anche il poter leggere del
bambino veneto come di quello calabrese. Che è avvenuto entro un
modello di scuola pubblica che ha sempre saputo affiancare lo sviluppo
della nostra meravigliosa lingua al rispetto per le lingue locali. E
che questo ha prodotto, per oltre un secolo, una faticosa ma costante
mobilità sociale.
Ma oggi abbiamo anche il dovere di riconoscere che, dalla fine degli
anni settanta del secolo scorso, questa spinta verso il sapere per
tutti e verso il superamento della povertà grazie all'istruzione si è
arrestata. Tanto che oggi il 20,8 % dei nostri ragazzi non ottiene un
diploma di scuola superiore né una formazione professionale compiuta. E
si tratta dei figli dei poveri, quelli per i quali la scuola pubblica è
nata. Bambini e ragazzi poveri, che sono quasi due milioni, il 18% del
totale. Se si guardano, poi, con attenzione questi dati, si vede che
essi rivelano una disunità dell' Italia tra nord e sud. Infatti nel sud
risiede il 70% dei minori poveri, 1 milione e trecentomila. E mentre la
media italiana di chi cade fuori dal sistema di istruzione è 1 su 5,
nel sud è quasi 1 su 3. La corrispondenza tra dispersione scolastica e
povertà delle famiglie è ovunque di nuovo evidente; ma nel Mezzogiorno
ha caratteri macroscopici. E non è solo questione di povertà. Nel sud i
bambini hanno enti locali meno capaci di spendere bene per servizi,
istruzione, salute, ambiente, sviluppo locale, cultura. Hanno scuole
più vecchie, brutte e meno manutenute e sicure. Hanno meno mense, asili
nido, tempo pieno, palestre, spazi verdi attrezzati. Conoscono ospedali
meno efficienti, minori opportunità di cure preventive e anche una
aspettativa di vita un po' meno lunga. Usufruiscono di trasporti,
informazioni e infrastrutture peggiori. Hanno famiglie e comunità che
usano banche più care e ancor meno propense a prestare denaro a chi non
lo ha già. E la Banca d'Italia ha calcolato che i bambini e ragazzi del
Sud hanno un investimento annuo medio pro-capite per l'istruzione - da
parte di enti locali, stato, famiglie - di oltre mille euro in meno.
Certamente, intorno all'educare ci sono oggi profondi mutamenti
rispetto ai molti decenni dell' unità d'Italia. Mutamenti antropologici
sui quale faremmo bene tutti a soffermarci di più e meglio: scuola,
famiglie, media.
Ma ci sono anche sfide immediate, compiti urgenti per la tenuta stessa
della coesione sociale. Perciò, negli anni a venire, quale che sia la
direzione politica del paese e quella di regioni e città, il primo
grande banco di prova per le classi dirigenti nazionali e locali è
quello del rilancio delle politiche attive per chi fin da bambino è
escluso dal sapere e quindi dalle opportunità. Sarebbe, insomma,
urgente, a 150 anni dall'unità, poter riparlare di vera politica. E
cimentarsi con il come aumentare scuole materne e nidi e rafforzare
l'istruzione di base, dando più ore e didattiche migliori a chi parte
svantaggiato; come rilanciare il sistema della formazione professionale
intorno al sapere fare e anche alle competenze di cittadinanza - saper
leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche; come
creare zone di intervento straordinario nelle aree più depresse, che
coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie,
centri sportivi; come rafforzare le ore di alfabetizzazione nell'
apprendistato; come offrire una ripresa di istruzione agli adulti che
non ne hanno, per acquisire le competenze indispensabili per stare al
mondo.
Dal tempo di Cavour, i politici savi dell'Italia unita, il movimento
sindacale, gli imprenditori, il pensiero meridionalista hanno saputo
superare divisioni, rigidità e interessi di parte quando si sono
occupati di queste cose. Con spirito rivolto alla comunità nazionale e
a quella locale, in modo concreto, evitando sprechi e concentrandosi
sui risultati. E ora di ricominciare.(Da La Stampa Marco Rossi Doria)
redazione@aetnanet.org