Un edificio in cemento armato che spicca
come una mosca bianca fra vecchi
tuguri e malandati gioielli archiettonici
della Palermo vecchia, nel cuore di
quel quartiere di Ballarò che ha visto
crescere Federico II, a pochi passi dai saloni
dorati di Palazzo dei Normanni.
Un mondo a parte, oggi come ottocento
anni fa, fatto di miseria, violenza, ma
anche di arte dell’arrangiarsi e di coraggio.
Coraggio rappresentato in primo
luogo da chi, come i 32 docenti della
scuola media Verga, avamposto dello
Stato dove lo Stato manca da troppo
tempo, ha deciso di puntare sulla comprensione
dell’essere umano e sul recupero
della sua dignità. «Siamo l’unica
agenzia formativa della zona», ribadisce
la preside, Rosaria Rizzo, prof con quasi
trenta anni di esperienza di insegnamento
alla spalle, da Parigi, a Corleone,
passando per Monreale. Rizzo è arrivata
alla Verga un anno fa, quando il tasso
dispersione scolastica era del 45 per
cento. Adesso si viaggia attorno al 25
per cento. Una realtà multietnica, uno
specchio del quartiere: su 200 studenti,
60 sono immigrati o figli di immigrati.
Provengono dalla Tunisia, dal Bangladesh,
dal Marocco.
Quali problema comporta la convivenza
fra ragazzi dalla cultura tanto diversa?
«Uno degli aspetti che complica il
processo di apprendimento è la lingua.
Arrivano senza conoscere una parola di
italiano. Come se non bastasse, sono
costretti ad inserirsi in classe all’improvviso.
Il loro arrivo è, infatti, legato ai
flussi migratori che hanno per protagonisti
i genitori. I ragazzi del quartiere sono
abituati alla presenza di persone
che hanno colore di pelle diverso, che
mangiano cibo diverso, con una cultura
differente dalla loro. Nonostante ciò
nelle classi i rapporti non sempre sono
semplici».
Quali problemi vivono i suoi alunni?
In particolare situazioni familiari disagiate:
mancanza di lavoro in primo luogo.
Abbiamo bambini che hanno 7 o 8
fratelli. Vivono in una stanza e in quella
stanza si mangia, si dorme. Il ragazzo,
quindi, arriva in classe dopo avere sperimentato
a casa un continuo e costante
attacco al riconoscimento della sua
dignità umana. Più studia, più si rende
conto di quello di cui manca la sua esistenza.
Più gli forniamo modelli, più
prende coscienza che lui non possiede
granché. L’effetto è dirompente. Questi
ragazzi hanno bisogno di continuo dialogo,
di qualcuno che possa farsi carico
di tutto quello che può agitarsi nella loro
mente e nel loro animo».
In che senso l’effetto è dirompente?
«Pochi giorni fa, per esempio, un ragazzino
del Bangladesh si è presentato
in classe con un occhio tumefatto. C’è
voluto un bel po’ prima che ammettesse
di essere stato preso a testate fuori
dalla scuola. Il ragazzo aveva reagito
verbalmente a una provocazione di un
altro alunno che, incitato dal suo gruppo,
ha punito il gesto di ribellione colpendo
il rivale».
Un caso di bullismo, quindi? Come siete
intervenuti?
«Se il comportamento da bullo provenisse
da una persona e fosse una sfida
aperta sarebbe facile intervenire con
le punizioni. Gli episodi, qui, però, sono
tantissimi e coinvolgono molti nostri
ragazzi. Dobbiamo svolgere il nostro
ruolo fino in fondo, coadiuvati dalla rete
che siamo riusciti a costruire nel
tempo. Con colloqui individuali, con le
famiglie, con il tribunale e i carabinieri
se necessario. Se denunciassimo tutti al
tribunale a scuola non avremmo più
nessuno, né ragazzini né ragazzine. In
quel caso abbiamo riunito i due ragazzi
per fare in modo che si chiarissero».
Come cercate di risolvere il problema
del superamento della barriera linguistica?
«Abbiamo firmato da poco una convenzione
con la facoltà di Lettere. I tirocinanti
vengono qui a scuola e lavorano
con i docenti per la semplificazione dei
testi. Un lavoro lungo e delicato».
Cosa chiederebbe al ministero?
«Di non essere accorpati a un altro
istituto. Solo così potremo continuare
su questa strada. Per essere autonomi,
infatti, è necessario avere fra i 500 e gli
800 alunni. Le scuole multietniche 300.
Noi ci fermiamo a 200. Nonostante ciò,
abbiamo non pochi problemi».
ROBERTO VALGUARNERA (da www.lasicilia.it)